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Recensione di: Spell Your Name Mr Brecht
Renato Massaccesi
Se Brecht è ricordato sopratutto per la sua epica che porta il tutto verso una dimensione politica, è pur vero che il grande drammaturgo tedesco è stato autore di tanti frammenti musicali (spesso in compagnia di Kurt Weill) che traevano spunto dal cabaret degli anni '20, e che quasi sempre andavano a farcire le sue opere più impegnate. Il secolo passato e questo gli hanno reso omaggio continuamente con forme le più disparate possibile. Tom Waits, Lou Reed, Frank Sinatra (Mack The Knife è uno dei più grossi standard nella sua versione crooneristica), persino il nostro Raimondo Vianello in una spassosissima trasmissione di tanti anni fa: sono soltanto alcuni degli artisti che hanno sfruttato degli elementi brechtiani per, spesso, costruirci sopra qualcos'altro.

La Dualband ci offre l'ennesimo di questi tributi ed è proprio il caso di dire che non basta mai. Se, dopo ottant'anni la vivacità di un repertorio così lontano risulta ancora attuale è anche per merito di `piccole` compagnie che danno la loro visione della storia. Qui non c'è solo Brecht e Weill ma anche Gershwin, Wedekind e altri a formare un racconto che sembra non avere una linea precisa ma invece è di una coerenza eccezionale. A tenere insieme il tutto la relazione, data alla commissione McCarthy, del presunto comunista Brecht, in un periodo in cui ogni persona di cultura che era contro veniva considerata comunista (un po' come sta succedendo da noi ora, e non è proprio una bella cosa).

E allora tra canzoni, scenette e teatro d'introspezione, si svela un panorama in cui molta dell'apparente leggerezza descritta attraverso personaggi grotteschi, viene quasi seppellita dal dolore di una popolazione che attraversava due guerre mondiali e da quello di un autore costretto a fuggire dal suo mondo per colpa di un imbianchino coi baffetti.

C'è tutto questo, e di più, in uno spettacolo che per quasi un'ora e mezzo ci fa sentire che il teatro per fortuna è ancora vivo, anche in `piccole` sale e in `piccoli` teatri in cui l'odore (metaforico) delle sudate tavole si sente tanto di più che in grandi eventi strombazzanti che non per forza riescono bene.

Merito di Brecht, sicuramente, ma merito anche della famiglia Borciani (moglie, marito e due figli, più un batterista `adottato`), famiglia di musicisti, attori, ballerini, poeti e quant'altro (che ci crediate o no, sul palco c'era tutto questo), che ha riportato colui che ha scritto Madre Coraggio e i suoi figli ad una dimensione cabarettistica, e fino ad arrivare ad un finale quasi alla Chaplin (un altro grandissimo colpito dalla scure maccartista) non ci ha mai fatto perdere di vista l'esilio di una vita ferita che col cabaret, come lo intendiamo noi, ha poco a che fare. Bravi veramente tutti.
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