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L’Europa di Angela Demattè
a cura di Giampiero Raganelli
In scena al Teatro Verdi con Mad in Europe, Angela Demattè ci racconta la sua idea di Europa
Vincitrice del Premio Riccione con il suo primo testo Avevo un bel pallone rosso, messo in scena, come altri suoi testi, da Carmelo Rifici, Angela Demattè è drammaturga ma anche attrice e cantante.
Uno dei nomi di punta della nuova drammaturgia italiana, vincitrice del Premio Riccione con il suo primo testo Avevo un bel pallone rosso, messo in scena, come altri suoi testi, da Carmelo Rifici, Angela Demattè è anche attrice e cantante. Con il suo lavoro Mad in Europe, monologo di cui è interprete e autrice, parla di Europa, delle sue origini trentine, di maternità. 

Abbiamo incontrato Angela Demattè nell’ambito del festival Pergine Spettacolo Aperto. Ora lo spettacolo è in scena al Teatro Verdi di Milano. 

Le tue drammaturgie sembrano testimoniare un grande interesse per il reale, per il mondo attuale. Come mai? 

Ho iniziato con Avevo un bel pallone rosso che parlava di una cosa degli anni Settanta. Non so se è questo, ci sono cose che penso ci riguardino. Sicuramente cerco sempre di scrivere delle cose che mi riguardino e ci riguardino e che abbiano quindi un eco su chi le vede. Sono sempre progetti che riguardano la realtà ma cercano sempre di parlare di un particolare, di una storia particolare, e cerco sempre in qualche modo di veicolare certi pensieri e ragionamenti alti, filosofici, in modo semplice. Io vengo da una famiglia che non è di artisti né di intellettuali, ma di artigiani. Penso sempre che in qualche modo devo arrivare anche a loro, cerco sempre di semplificare. Questo progetto è un po’ diverso ho cercato di rischiare un linguaggio, si è lasciato trasportare da qualcosa che non sapevo bene cosa fosse. È stato un po’ un lusso e anche un rischio perché rischi di non essere così chiaro e così per tutti. Ci sono difficoltà per questo spettacolo, le lingue: quando arrivano tutte le lingue insieme è chiaro che qualcosa sfugge. E la fruizione, se è realistica non funziona. Perché può seguire una storia ma devi sempre pensare che ci sia dentro una metafora. Ogni parola che uso nasconde sempre qualcosa d’altro, ci sono sempre dei cortocircuiti nelle parole. E questa è la ricerca che sto facendo. È chiaro che quando la parola cerca di comunicarsi, ma se deve comunicare vita è molto complesso che tutta la vita si riesca a comunicare. E quindi credo che, come accade nella realtà, ci siano continuamente dei sottotesti. Qualcuno vuole qualcosa, qualcuno vuole un’altra cosa. C’è una certa libertà nella fruizione di questo spettacolo. Si avvicina forse di più all’arte contemporanea che al teatro. Un mio amico che si occupa di arte contemporanea a Bruxelles, quando ha visto lo spettacolo, gli risultava fin troppo chiaro quel che stava succedendo. Mentre per qualcuno del pubblico può essere fin troppo complesso. Quindi c’è il problema di capire chi lo vede. Non so bene in che direzione vada la mia scrittura. Ho molta voglia di fare anche scrittura classica. Però in questo caso è successo questo. Credo che si debbano esplorare anche questi rischi per arricchire l’altra parte. Qui poi c’è il fatto che mi metto in scena da sola. Sono io dentro ed è piuttosto complicato. Ora comunque sto lavorando con Carmelo Rifici sull’Ifigenia per uno spettacolo, Ifigenia, liberata, che sarà a LuganoInScena e poi al Piccolo Teatro. 

In genere scrivi testi per altri. Come mai per Mad in Europe hai messo tu in scena il testo? 

Scrivo per altri o comunque c’è qualcuno che mi dirige. In effetti questo punto è un problema e una stranezza, il fatto che sia in scena da sola, che curi la regia. C’è anche il fatto che il Premio Scenario prevede che tutti i componenti di un gruppo siano under 35 e io lavoro prevalentemente con due registi, Carmelo Rifici e Andrea Chiodi che entrambi hanno più di 35 anni e quindi è stato impossibile coinvolgerli. 

Abbiamo appena visto, qui a Pergine Spettacolo Aperto, un altro lavoro sul tema Europa, Visit Europe dei Rimini Protokoll. C’è un’urgenza artistica di parlare di Europa, come mai? 

Ho partecipato a un incontro che si chiamava A New Narrative for Europe, che era un’idea di Barroso di sfruttare questo soft power che è il vero potere dell’Europa, la ricchezza culturale e artistica. Sono stati diversi incontri in varie città europee, io ho partecipato a quello di Milano e ho scritto un contributo partendo da Musil per un libro che è stato pubblicato. Alla presentazione del libro si faceva molto uso di queste parole, pace, libertà, democrazia, che sono valori dell’Europa. Però le sentivo come svuotate. Una diversa impressione ho avuto quando ho parlato con delle persone che hanno visto la nascita dell’Europa, persone di settant’anni. Anche quando ero piccola, un signore mi disse «Voi giovani dovete guardare all’Europa». Come se loro avessero una speranza verso l’Europa molto viscerale, vera e concreta che noi non abbiamo più. C’era qualcosa di molto concreto in queste parole che abbiamo smarrito. E allora questa cosa mi ha fatto pensare, studiando le origini, i fondatori che erano Schuman, Adenauer e De Gasperi, soprattutto alla loro idea d’Europa dove il Cristianesimo unisce tutta l’Europa. La radice cristiana e giudaica era molto forte. Quindi ho voluto fare i conti con quella tradizione che forse quelle parole, di cui sopra, le poteva riempire. Storicamente c’era appena stata la guerra e quindi era necessaria veramente l’unione. E lo è tutt’oggi ma non lo sappiamo più. Ora farnetichiamo. Quello che è successo in Inghilterra ci fa capire tante cose. Però credo sia un problema prevalentemente culturale. In questo senso credo che Barroso abbia avuto una buona intuizione. Il problema è che succedono delle cose che non hanno eco perché diventano delle cose piccoline, chiuse lì. Questi contributi erano molto interessanti. La Merkel era molto entusiasta, aveva fatto una festa a Berlino. Era una cosa che aveva avuto una sua importanza.

Mad in Europe è tutto basato su un pastiche linguistico. Il significato è chiaro, ma dal punto di vista prettamente teatrale come ci hai lavorato? E che obiettivo volevi raggiungere? 

L’uomo è fatto di parola. Il linguaggio costruisce il pensiero o il pensiero costruisce il linguaggio? Non ne usciamo da questo problema. L’uomo si fa con il linguaggio o, come uomo, se non ha il linguaggio dove sta? Questo è in filigrana quello che sta sotto questo pastiche. Che però arriva al dialetto perché il dialetto non ha bisogno neanche di parole. Potremmo usare il grammelot per il suono. Ho dovuto dare una forma allo spettacolo a un certo punto. Questa è la formula di adesso. Non so se mantenerlo così. Però è stato un parto lungo questo spettacolo. Lo abbiamo smantellato e ricomposto. Dalla versione iniziale abbiamo poi improvvisato. È stato difficile. Anche il cercare la forma è un argomento. Io voglio questo bellissimo posto che è kantoriano, grotowskiano. Lì c’è l’arte, lì ci sto molto bene. Però dopo devo fare i conti con il ‘mio’ degli altri che non fanno teatro, che è un’altra cosa. Lo vado cercando. Mi metto in un ambiente comodo, kantoriano, grotowskiano, però poi c’è anche la Madonna. Però credo che il punto sia la nascita. Il bambino non parla però lo ami ed è un’anima. Quindi lì c’è il miracolo. Nell’Ifigenia si dice che le donne, da quando partoriscono sono condannate a soffrire. È quell’amore lì che è misterioso. È così per noi anche con diversa cultura rispetto agli antichi greci, perché abbiamo avuto il cristianesimo. Quell’amore è uguale, è qualcosa di veramente antico. Secondo me è voler scoprire il mistero della vita. Va legato a quello. Perché la donna genera, la donna partorisce, l’uomo no. I greci pensavano che il bambino nascesse dal seme dell’uomo e che la donna fungesse solo da supporto.
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