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La parola come arma di distruzione di massa ne IL CROGIUOLO di Arthur Miller
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Carignano di Torino giovedì 20 ottobre 2022
di Arthur Miller

traduzione Masolino d’Amico 

con (in ordine alfabetico): Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo,
Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Filippo Dini, Didì Garbaccio Bogin, Paolo
Giangrasso, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe,
Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola

regia Filippo Dini; scene Nicolas Bovey; costumi Alessio Rosati: luci Pasquale Mari; musiche Aleph Viola; collaborazione coreografica Caterina Basso; aiuto regia Carlo Orlando 

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Bolzano / Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Con il sostegno della Fondazione CRT in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di ICM partners c/o ICM Partners c/o Concord Theatricals Corporation
Se nella lingua italiana indica un recipiente usato per fondere metalli, a teatro Il crogiuolo è il dramma in quattro atti di Arthur Miller ambientato a fine Seicento in uno sperduto villaggio americano, Salem, la cui quotidianità è sconvolta dall’ondata di violenze e delazioni successive al comportamento di un gruppo di adolescenti accusate di stregoneria. Come nei più classici degli effetti domino, l’ordine sociale dell’intera comunità è stravolto da impiccagioni, centinaia di arresti, migliaia di persone private della loro libertà e, cosa ancor più grave, compromesse nel loro onore: una vera e propria "caccia alle streghe" che, da attento conoscitore e fustigatore dei costumi americani, Miller prese a prestito per denunciare gli eccessi della società a lui contemporanea, l’epoca più grigia di quel maccartismo che ha visto una pletora di intellettuali limitata nella libertà di espressione per le accuse di sovversione ed antiamericanismo.
Di metafora in metafora, se il passaggio dal Seicento di Salem al Novecento di Miller non è da considerarsi forzato, non di meno può esserlo una rilettura del dramma con gli occhi del presente, ancor più considerando gli ordini sociali marchiati dalla limitazione di ogni forma di libertà, a partire dall’affermazione e riconoscimento di quella figura femminile ancora vittima di bigotti e incomprensibili retaggi culturali.

Anche da queste premesse immaginiamo sia partito Filippo Dini nella doppia veste di regista e interprete de Il crogiuolo, prodotto dagli Stabili di Torino, Bolzano e Napoli e risolto in un pregevole allestimento corale con molte luci e qualche ombra: se le tre ore di spettacolo si aprono con il più classico dei sabba danzato nei boschi di Salem, ad un vecchio e malandato Governatore Danforth è affidato il compito di proiettarci in medias res, nel pieno di un racconto che la macchina del tempo riporta indietro a quando irrequiete adolescenti diedero libero sfogo alle loro pulsioni giovanili con danze e comportamenti dall’opinione pubblica identificati in attacchi satanici. Seguendo il più classico dei meccanismi accusatori a catena, l’intera comunità cade nel delirio più totale: sui ministri della fede come sugli uomini di legge, o su semplici cittadini nel caso dei coniugi Proctor, si scaglia impietosa la scure della delazione e della violenza per un collettivo gioco al massacro che non risparmia nessuno tra vendette di amanti abbandonate e calunnie gratuitamente riservate al prossimo. In scene dal ritmo incalzante assistiamo impotenti al declino di una società le cui fondamenta si rivelano prossime al collasso: nel giuoco delle parti accusatore-accusato, alla fine è sempre il primo a prevalere anche grazie al ricorso a quella menzogna, o fake news per dirla con le parole di oggi, sempre più stella polare da inseguire nell’attuazione del proprio istinto prevaricatorio, se non vendicativo.

Allestimento alla vecchia maniera con un cast di quindici applauditissimi interpreti, Il crogiuolo diretto da Filippi Dini è congegno teatrale che trascina il pubblico, al netto di alcune macchie in cui, dal punto di vista registico, sembra a tratti tradire le intenzioni originarie: ci riferiamo alla scena del processo dove si sceglie per le giovani "streghe" la strada di un registro assai lontano dai toni satanici che per tutto il resto del dramma, ma soprattutto nelle pagine della storia, è loro riconosciuto. Al netto di questo, la rilettura convince nel suo essere manifesto di quel crogiuolo multiculturale da sempre cifra distintiva di una società americana messa alla berlina i cui ideali, al pari della grande bandiera scolorita che ad un tratto campeggia sulla scena mobile di Nicolas Bovey, sono oggetto di calpestìo da parte di uomini e donne travolti da un meccanismo più grande di loro, e dominato dalla paura del prossimo come dell’ignoto: impietoso spaccato di un’umanità in cui si fatica a trovare l’eroe positivo, lo stesso John Proctor ha in realtà approfittato della grande accusatrice Abigail Williams nel momento in cui la moglie Elizabeth era in evidente difficoltà, il dramma di Miller è imponente architettura edificata per l’eliminazione del singolo, per la distruzione di ogni forma di etica e di morale. Ogni sequenza è l'ingranaggio di un diabolico meccanismo che alla fine collasserà su se stesso per il sacrifico di un piccolo uomo, non meno colpevole degli altri, capace di mandare all’aria un ordine sociale fondato su delazione, paura, vendetta.

In scena l’intero cast assolve a pieno al non facile compito, a partire dalla grande umanità dei coniugi Proctor di Filippo Dini e Manuela Mandracchia, pur con le loro colpe i soli lampi di luce in un firmamento moralmente buio, per arrivare a un Nicola Pannelli in grandissimo spolvero nei panni dello spietato Governatore Danforth cui è affidato il compito di aprire, in modalità Spoon River presentando i personaggi, e chiudere una storia su cui cala il sipario con le note dell’inno americano lentamente trasformarsi nel folk di The house of the rising sun suonato alla Jimi Hendrix.
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