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Recensione di: Albania casa mia


Il debutto di un giovane promettente che sceglie consapevolmente di mettersi in gioco offrendo la propria storia perché sia materia viva sulla scena.
I contorni di una cartina segnano su un’angusta pedana i confini dell'Albania. Un contorno invalicabile, che costringe il protagonista a rimanere inchiodato a quel limite geografico, che in scena è condizione di disagio, metafora di una costrizione fisica e mentale. E’ il regista Giampiero Rappa ad averlo posto lì, in una posizione volutamente poco confortevole, necessaria per ripercorrere una vicenda parimenti scomoda. E' dall'interno di questa piccola mappa, dunque, che Aleksandros Memetaj racconta la propria storia, quella reale e personalissima di una ricerca di identità, ma anche quella universale, comune a molti, in tempi e luoghi diversi, di un esodo e di un tentativo - mai pienamente riuscito - di mettere nuove radici.

Giunto in Italia a pochi mesi, fra le braccia di giovani genitori in fuga dalla guerra civile che sconquassa l'Albania dei primi anni '90, post-comunismo, Aleksandros cresce da italiano in un Veneto non sempre accogliente, che offre opportunità di lavoro da una parte, privando quotidianamente di dignità intere famiglie di immigrati dall’altra. È così che si resta sospesi fra due mondi, fra un passato senza ritorno e un futuro difficile da costruire. È così che si resta "in mezzo", vulnerabili, irrisolti. È così che cresce Aleksandros, figlio di due culture diverse e distanti.

Quel bambino con l'età acquisisce consapevolezza della propria condizione di perenne estraneità, da una patria che non gli appartiene più e da una terra che non sarà mai pienamente sua. Nel viaggio a ritroso che conduce in scena arriva fino al punto di non ritorno, che discrimina la vita della sua famiglia in un “prima” e un “dopo” irrevocabili: quel salto nel vuoto compiuto da un altro Alexander, con un piccolo sè stesso in braccio, per conquistare la possibilità di una nuova esistenza, ancorché ricominciando da zero in un altrove straniero. Dove la condizione di esule sarà un destino che segnerà anche la nuova generazione “italiana”.

Con questa sua opera di esordio, che lo vede autore ed interprete più che promettente, il ventiquattrenne Memetaj si mette totalmente in gioco, portando in scena una storia carica di sentimento, ma abilmente veicolata attraverso una narrazione precisa, senza fronzoli, con una vena di ironia e quel tanto di distacco che gli permette di osservare in modo disincantato fatti e persone, ritraendoli in pochi tratti essenziali e convincenti. La sua scrittura è precisa ma fluida, sostenuta dal dolce accento che risuona nelle frasi in albanese del testo, alternato alla musicalità del veneto. La narrazione procede delicata, con un buon ritmo, sul filo dei ricordi autentici dell’autore, che fa tesoro di questo patrimonio prezioso tessendolo abilmente in una trama sottile e coerente, lungo il tragitto che va da Valona a Fiesso D'artico e ritorno.

Lo spettatore viene assorbito da un racconto sentito, costruito in modo tecnicamente corretto, reso da un attore giovanissimo ma già sostanzialmente capace di dosare le energie e gestire diverse corde emotive. Questo lavoro è un piccolo gioiello di teatro di narrazione, in minima parte ancora da raffinare, da rifinire in qualche punto, per arrivare alla perfezione formale. E’ il debutto di un giovane promettente, che sceglie consapevolmente di mettersi in gioco offrendo la propria verità perché sia materia viva sulla scena. E perché il proprio passato prossimo sia, oggi più che mai, utile stimolo per riflettere su quanta umanità, quante speranze, passioni, desideri e legittime aspirazioni siano racchiuse nelle stive di tutti quei pescherecci che da sempre traghettano anime migranti.
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