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Non dirlo In Scena! - Sandro Veronesi: i newyorkesi sono i romani di oggi
a cura di Maurita Cardone
Intervista allo scrittore italiano che il 2 maggio è al Cherry Lane Theatre con il monologo `Non dirlo`
Arriva a New York il testo teatrale tratto dal libro in cui Sandro Veronesi propone una rilettura del `Vangelo secondo Marco`. Un racconto d'azione, lo definisce lo scrittore e spiega: `Marco ha il compito più difficile, parlare a un popolo per niente spirituale come erano i romani`
Che dei Vangeli si condivida o meno il messaggio, quello che non può non essere riconosciuto a queste opere letterarie è l’efficacia del progetto comunicativo. La storia delle gesta di Cristo, raccontata dagli apostoli in giro per il mondo, è stata in grado di cambiare le sorti di quel mondo. E particolarmente determinante per la riuscita della missione è stato, secondo lo scrittore Sandro Veronesi, il Vangelo secondo Marco, scritto a Roma per i romani. Da quelle pagine Veronesi ha tratto il libro Non dirlo (Bompiani, 2015) poi riadattato in un omonimo testo teatrale. Il monologo è il primo spettacolo della quinta edizione del festival di teatro italiano a New York, InScena!. Sarà al Cherry Lane Theatre martedì 2 maggio. In attesa di vederlo sul palcoscenico, abbiamo raggiunto lo scrittore al telefono per farci raccontare come nasce l’idea di portare la storia di Cristo a teatro.

Nelle prime pagine del libro ammetti di non essere credente. Da persona non religiosa qual è il tuo interesse nei confronti del Vangelo di Marco e di questa storia?
Io sono uno scrittore e anche un lettore e la scrittura e il racconto sono la cosa fondamentale dei Vangeli. Quando ci viene chiesto di credere in dio e in Gesù ci viene chiesto di credere in un racconto. Gli evangelisti sono raccontatori di storie. Ed è attraverso il racconto che gli evangelisti sono riusciti a diffondere il cristianesimo. La grazia della fede, mentre Gesù era in vita, ti poteva toccare se lo incontravi, sfioravi la sua veste, incrociavi il suo sguardo. Poi però, una volta sepolto, è stata affidata al racconto. Quello di Marco è un racconto particolare, abbastanza avvincente e, per certi versi, anche poco spirituale.

Dici nel libro che si tratta di un racconto d’azione. In che senso?
Quello che sostengo è che Marco lo costruisce apposta per i romani. Lo scrive a Roma e sa bene che per riuscire a penetrare nell’immaginario romano bisogna agire in un certo modo e allora inventa uno stile moderno che va incontro all’immaginario della cultura romana che era molto più moderna del resto del mondo. E questa modernità sfavilla nell’azione che attraversa tutto il racconto anche a scapito della parola. Viene sacrificato il messaggio, perché i destinatari di questo racconto non avrebbero saputo apprezzare il verbo.

Il Vangelo di Marco, scrivi, è una macchina di conversione. Ritieni che la storia del cristianesimo e, forse, la storia del mondo sarebbe stata diversa se questo racconto fosse stato scritto in un altro modo?
Io ritengo di sì perché se fosse fallito a Roma il Cristianesimo sarebbe rimasto una variante dell’Ebraismo o avrebbe dato vita a piccole chiese periferiche. Anche se Paolo con le sue doti di predicatore, scrittore e anche viaggiatore è riuscito a diffondere il messaggio in molti territori, credo che questa filosofia sarebbe stata riassorbita dalla potenza centralista dell’ebraismo. Ma se invece è nata una nuova religione è perché ha sfondato a Roma. Perché ha insistito per tre secoli e mezzo a Roma sotto persecuzione fino all’editto di Costantino dopo il quale romanità e cristianità finiscono addirittura per coincidere. Ecco dove è cambiata la storia. È cambiata a Roma. Oggi si parlerebbe di storytelling. Marco è il primo comunicatore che capisce che il come viene presentato un messaggio è altrettanto importante del messaggio stesso e che lo stile del racconto va adattato all’audience? Secondo me lo hanno capito anche gli altri evangelisti perché Matteo racconta la storia ai giudei e la racconta come va raccontata ai giudei. Luca la racconta ai cristiani già convertiti e la racconta come deve essere raccontata a chi ha già trovato la fede. Marco ha il compito più difficile di tutti e quello che lascia stupefatti è che ci sia riuscito. Era più facile dialogare con gli ebrei perché, anche se avevano messo a morte Cristo, c’era in comune con loro tutto l’antico testamento. Ma parlare ai romani, che era già tanto se riuscivano a farsi un’idea di dove fossero quelle terre, e che consideravano i cristiani e gli ebrei la stessa cosa, è stata un’operazione di narrazione con un coefficiente di difficoltà altissimo. E non era questione di farsi apprezzare, era questione di vita o di morte: se questa operazione non fosse riuscita a fare dei romani un popolo spirituale, cosa che non erano mai stati, sarebbe sparito il Cristianesimo.

Dal momento che tu dici di non essere religioso immagino tu prenda con il beneficio del dubbio le storie raccontate nei Vangeli e in questo in particolare. Qual è a tuo avviso il rapporto tra verità storica e la verità di una comunicazione che aveva, come hai detto, un obiettivo specifico?

A me non interessa la verità storica. Se vai a cercare quella perdi di vista il punto fondamentale. Nel caso di Marco ci sono evidentemente delle menzogne storiche. Il ritratto che fa di Pilato è sicuramente non veritiero: era molto peggio di così. Ma lui sta ritraendo un romano ai romani e non gli va di ritrarlo come il peggior personaggio della sua storia. Ci sono diversi momenti che sono inverosimili, ma è una rappresentazione. A Marco non interessa la verità, gli interessa suggestionare, tendenziosamente. È un racconto tendenzioso. Per l’approccio che ho avuto io non c’è ragione di andare a fare del fact checking visto che è la letteratura stessa che conferisce verità alle cose dette. Il fatto che io non sia credente mi esclude dal frutto vero della fede che è la preghiera, la profondità dell’esperienza di Cristo, ma non mi costringe ad andare a smentire i passaggi delle sacre scritture in nome della laicità e della scienza.

Perché secondo te un testo del genere ha bisogno del teatro?
Perché è il modo in cui è stato scritto. È scritto per la presenza, è un’esperienza corporea, fisica a contatto con le persone. Sentivo che il lavoro non era completo senza questo contatto. Allora mi sono arrischiato a fare una cosa che non avevo mai fatto prima e che probabilmente non farò più, e non era una cosa che potevo affidare a un attore: ero io stesso che dovevo completare il lavoro portandomelo addosso. E di teatro c’è solo questo: un rapporto tra un corpo e un pubblico attraverso un testo. Ed è un’esperienza nuova come di fatto doveva essere un’esperienza nuova il Vangelo. D’altra parte fino al Concilio vaticano secondo, ovvero fino alla metà del secolo scorso, la lettura del Vangelo non era incoraggiata, quando non era addirittura vietata. O eri un maestro oppure dovevi leggere il Vangelo in presenza di un maestro. Mentre i protestanti mettevano addirittura le bibbie e i Vangeli nei cassetti dei motel, nella Chiesa cattolica romana la lettura del Vangelo era sconsigliata. Poi c’è stata un’apertura. Io il Vangelo di Marco ho cominciato a leggerlo perché me l’ha mandato a casa il papa. Infatti nella premessa del tuo libro lo racconti: per il Giubileo a Roma il papa mandò a casa dei romani copie del Vangelo di Marco per riportare la città verso la spiritualità.

Da non credente, questa cosa non ti ha minimamente infastidito? Non ci hai visto un tentativo di proselitismo?
Una cosa problematica per tutti i non credenti nei confronti del cristianesimo è questa fissazione dell’universalità. La religione ebraica, per esempio, non cerca di convertirti, anzi, quasi sdegnosamente ti tiene fuori perché loro hanno il verbo e non fanno proselitismo. Invece il cristianesimo nasce con questo input, che viene da Cristo stesso, di fare della Chiesa cristiana una chiesa universale. Negli anni della mia formazione, che è stata molto laica, mi pareva che un dialogo vero con il mondo cattolico non fosse possibile perché nel momento in cui gli toglievi la possibilità di convertirti gli toglievi anche qualunque interesse nei tuoi confronti. Però mi sembra che ora le cose siano un po’ cambiate e che oggi la Chiesa abbia più un problema di mantenimento che di conquista. Ora la popolazione cristiana nel mondo è molto estesa e il rischio è di non riuscire a impedire una secolarizzazione e un inaridimento progressivo dei territori già cristianizzati. E quindi la strategia è cambiata e io la percepisco meno invasiva. L’intenzione delle iniziative che hanno accompagnato il Giubileo, per esempio, era di risvegliare la spiritualità e non di imporre una religione che, a Roma in particolare, si dà più o meno per scontata: va rivitalizzato qualcosa che sembra spento. Per un laico questo è molto meno fastidioso perché lo sforzo non è puntato su di te che sei fuori ma su chi è dentro e deve riscoprire quei valori. Io laico posso anche non saperle o sentirle certe cose ma il credente deve sentire come la presenza di Cristo dentro di sé lo rivoluziona. E se perde questi valori allora il pastore brandisce lo strumento arcaico, lo stesso che convertì i romani duemila anni fa e che diventa strumento di ri-conversione.

Il soggetto del tuo libro e del tuo monologo è, di fatto, un progetto di comunicazione finalizzata a un obiettivo, eppure il titolo di entrambi è Non dirlo, un’esortazione al silenzio. Come mai?

Questo è uno degli aspetti più misteriosi del Vangelo di Marco e prevede un po’ di ricerca: io ho dovuto studiare per capirlo. E man mano che vado avanti con la storia, nel libro e nel monologo, svelo cosa ho capito di questa ingiunzione al silenzio. Da un lato c’è una strategia che non è di Marco ma di Gesù stesso: mantenere sempre nell’ambiguità la sua identità e il suo operato fino a quando non compare la croce. Perché è la croce che illumina tutto quello che ha detto e fatto. E poi c’è una strategia davvero comunicativa. Una persona che fa cose prodigiose e intima di non parlarne crea un cortocircuito che dà adito a un mistero che è quello che Gesù vuole sostituire alla certezza dei giudei dell’anno ‘30 o dei romani dell’80: erodere la certezza e l’abitudine e sostituirle con un mistero e un dubbio.

Pensi che il pubblico americano e newyorchese in particolare capirà questa storia così romana?
Se oggi c’è un popolo che somiglia ai romani di allora è quello americano. E in qualche modo New York, che è il centro dell’impero, è la Roma di allora, molto diversa e divisa dalle province. La voce di Marco è una voce costruita per essere udita dai potenti, dai più forti. Il pubblico di New York è il corrispettivo del pubblico per cui è stato scritto quel Vangelo e quindi sono sicuro che il testo sarà compreso.

Articolo pubblicato su La Voce di NY

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