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La claustrofobica (dis)umanità di Zio Vanja...
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Carignano di Torino venerdì 10 gennaio 2020
di Anton Čechov 

adattamento Kriszta Székely e Ármin Szabó-Székely; traduzione Tamara Török curata da Emanuele Aldrovandi

con Paolo Pierobon, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Ivan Alovisio, Federica Fabiani, Lucrezia Guidone, Franco Ravera, Beatrice Vecchione 

regia Kriszta Székely; scene Renátó Cseh; costumi Dóra Pattantyus; luci Pasquale Mari;  musiche Flóra Matisz;

Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale
I grandi classici o si rappresentano come scritti, con maniacale rispetto dell’originale, o si sottopongono a pericolosi lifting, con il rischio di tradirne in parte l’identità: non si sottrae a questa regola lo Zio Vanja che Armin Szabó-Székely e Kriszta Székely a quattro mani adattano nell'allestimento prodotto dallo Stabile torinese in scena al Teatro Carignano. 

Nella scena disegnata da Renátó Cseh, una stanza-serra trasparente al cui interno si consuma la non-vita dei personaggi, Kriszta Székely fa rivivere i diversi round di cui si compone il dramma cechoviano, in parte attualizzandone la struttura con il Serebrjakov di Ivano Marescotti che da scrittore diventa affermato regista di cortometraggi e l’Astrov del tormentato Ivan Alovisio non più filosofo amante dei boschi, ma convinto ed impegnato attivista green con pc portatile al seguito: dettagli, penserà qualcuno, ma a teatro è spesso il dettaglio che può fare la differenza, soprattutto se non risulta poi così necessario ad una piena, o in questo caso diversa, comprensione del testo. Come che sia nello spettacolo diretto dalla regista ungherese i caldi vapori dell’estate cechoviana solo si intuiscono, lasciando spazio alle non meno bollenti inquietudini di uomini e donne duramente provati da un’esistenza passiva, incapaci di prender in mano la vita per indirizzarla secondo le proprie reali intenzioni: è cosi che il buon esito finale dello spettacolo lo si deve soprattutto alla prova degli interpreti, a partire dall'applaudito Paolo Pierobon per un barbuto Vanja dagli istinti a tratti beluini, spesso in preda ai demoni dell'atavica insoddisfazione, sempre prigioniero dei propri fantasmi come di un destino "altro” per lui avaro della benché minima gioia. Nella sua inevitabile caduta libera, il figlio della deliziosa "maman” di Ariella Reggio trascina dietro anche le concrete speranze di vita vera della Jelena che Lucrezia Guidone tratteggia come infelice sposa di Serebrjakov, e non meno agognato desiderio del medico Astrov verso cui la Sonja della tormentata e iconica Beatrice Vecchione riversa una passione tanto incompresa quanto sofferta.

Parole parole e parole, non trascurabile il contributo del mangiapane Teleghin di Franco Ravera e della factotum Marina di Federica Fabiani, per due ore più intervallo che la regia della Székely talvolta esaspera con scelte coraggiose, talvolta non così necessarie: in soccorso, con immancabili toni ora tragici ora grotteschi, per fortuna sempre risplende quell'architettura cechoviana fatta di relazioni sul nulla costruite, e nel nulla destinate a risolversi.
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