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Il collasso generazionale raccontato da Emanuele Aldrovandi
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Gobetti di Torino venerdì 20 maggio 2022
testo e regia di Emanuele Aldrovandi 

con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi 

scene Francesco Fassone; costumi Costanza Maramotti; maschera Alessandra Faienza; luci Luca Serafini; consulenza progetto sonoro GUP Alcaro; progetto grafico Lucia Catellani; assistente alla regia Giorgio Franchi;

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Associazione Teatrale Autori Vivi
In collaborazione con La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna
La premessa, se vogliamo, è tutto fuorché originale: l’umanità è rinchiusa nelle proprie abitazioni da un letale virus respiratorio che trasforma uomini e donne in tacchini in un processo di ingestibile mutazione: niente più lavoro, ma smartworking, niente più spesa al supermercato, ma acquisti on line, niente più vita sociale e la semplice corsetta al parco diventa vietata.

L’estinzione della razza umana di Emanuele Aldrovandi parte dal nostro vissuto, da un passato prossimo che per certi aspetti è ancora presente di cui si portano in scena le dinamiche sociali e relazionale negli incontri–scontri di un anonimo condominio: la scena di Francesco Fassone definisce gli spazi comuni di un ambiente claustrofobico dove i costumi di Costanza Maramotti sono in perfetta tinta con la cupezza di un’atmosfera vivacizzata dai dialoghi delle due coppie protagoniste, giovani uomini e donne quanto più normali alle prese con nevrosi e logorìo di una vita moderna limitata dai rigidi obblighi di legge. Da una parte i neo genitori dove lei, ostetrica, ha appena scoperto l’altra faccia della medaglia del suo lavoro, mentre lui, rigido osservatore delle normative vigenti, è prossimo al default finanziario dopo aver investito soldi ed energie in un agriturismo in terra umbra: dall’altra la coppia di fidanzati formata da una canterina seguace di Greta vicina all’esaurimento e da un rampante esperto di marketing dalla lingua biforcuta il cui unico desiderio è andare a correre al parco, in barba a divieti e proibizioni. Quanto di più "già" conosciuto e vissuto, si potrebbe pensare, per un racconto che vive dei diversi round di un gioco di ruolo in cui a sfidarsi sono prima i due uomini, poi le due donne, poi gli uni contro gli altri, in una querelle verbale con tanto di riferimenti alla situazione sanitaria ed al ruolo della scienza.

Dal nostro passato prossimo, si diceva, parte Aldrovandi: già, ma dove arriva? Leggere L’estinzione della razza umana come una grottesca rappresentazione del contesto pandemico denoterebbe un approccio superficiale e limitante, oltrechè teatralmente poco efficace: spingendoci oltre ci piace immaginarlo come semplice pretesto per fotografare "la degenerazione di una generazione", lo spiazzamento di uomini e donne poco più che trentenni, alle prese con mascherine, divieti e gel, chiamati a lottare con ataviche insicurezze, fragilità e incongruenze. Il tutto si materializza in ottanta minuti filati dal ritmo altalenante dove, nell’applaudita prova dei cinque interpreti, c’è spazio per la risata di pancia come per l’amara riflessione su vizi e deformazioni di un agire umano alle prese non tanto con il rischio di trasformarsi in tacchini, quanto con la più concreta possibilità di dover rimettere in discussione un intero sistema di valori sociali e relazionali all’improvviso palesatosi in tutte le sue contraddizioni.

Da ultimo, una considerazione: se la piéce di Aldrovandi ha l’indubbio merito di voler combattere frasi fatte e ritornelli di un’epoca che ci vede impegnati in una difficile rinascita, è anche vero che lo stesso spettatore, chi in maniera più consapevole chi meno, è ancora parte integrante dell’ingranaggio pandemico. Ad oggi L’estinzione della razza umana rischia di vedere il suo potenziale teatrale in parte anestetizzato da quei stessi luoghi comuni di cui vuole, anche in maniera provocatoria, esorcizzare la presenza: sarebbe curioso, pura utopia in un mercato teatrale fondato sulle dinamiche dell’usa e getta, riascoltare queste parole, tra un anno, tre anni o cinque anni, per riscontrarne gli effetti suscitati in un pubblico ormai non più abituato ai termini lockdown, mascherine e contagi.
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