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L'Artista di Fabre, `Imperatore della sconfitta`
a cura di Donatella Codonesu
In uno spettacolo visionario l’immagine di un artista che si lancia verso il mondo con il cuore in mano, perennemente sfuggente a qualsiasi definizione. Visto al Teatro Brancaccino il 16 febbraio 2018
di Jan Fabre, Regia Elena Arvigo, traduzione Giuliana Manganelli
Con Elena Arvigo e Caterina Gramaglia
Scenografia Alessandro di Cola, Video Project Carolina Ielardi, Luci Manuel Molinu, Produzione Teatro Out Off
Il testo di Jan Fabre, scritto nel 1994 e dedicato all’estremo e visionario attore Marc Moon Van Overmeir, è una spiazzante riflessione sul valore creativo del fallimento, quasi una conditio sine qua non dell’Artista, che attraverso la perdita si rigenera e rafforza la propria volontà creativa. Un’Araba Fenice che costantemente risorge dalle proprie ceneri, un cuore che anche, se fatto a pezzi, continua a pulsare potentemente. A sperimentare. A provocare.

La scrittura di Fabre è densa, ma le immagini evocate sono oniriche e sospendono le parole in un flusso rarefatto, volatile. Eternamente chiamato al confronto con sé stesso, l’Artista si perde e ritrova incessantemente, in un gioco di specchi in cui entra anche il mondo esterno, attraverso gli occhi dello spettatore, ma solo nel riflesso della visione creativa. Un testo che suggerisce visioni surreali, carico di potenzialità drammaturgiche, sviscerato accuratamente dal “dire” e dal “non dire” di due attrici particolarmente attente al suono di ogni parola. In scena Elena Arvigo, che cura anche la regia, è affiancata dal “doppio” Caterina Gramaglia e la coppia funziona molto bene nel riproporre il mettere e il levare dello slancio creativo, i pieni e vuoti dell’esistenza, il dentro e il fuori dello sguardo.

Qualche riserva sulla regia, invece, che probabilmente risente anche di un adattamento ad uno spazio scenico non sufficientemente ampio, pur giocata con una visione molto personale sulla multimedialità e su oggetti scenici simbolici. Forte l’immagine del grande cuore “esterno” al corpo, belle le scale lunghe e slanciate che aspirano all’ascesa e belle immagini proiettate sulle due figure delle attrici, coinvolgenti i fluidi movimenti che suggeriscono il vortice della creazione e il volo delle idee, efficace anche la scelta delle musiche. Ma l’insieme risulta sovrabbondante e a tratti confuso nella lettura dei giochi di luce/ombra attraverso lo schermo e nella sovrapposizione di suono e voce. Così come risultano di troppo i testi in proiezione, che distraggono dal recitato dell’attore senza aggiungere nulla alla potenza della partitura di Fabre e al visionario ritratto d’artista a cui lo spettacolo dà comunque magica vita.
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