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Samuel Beckett: Fin de partie - Scènes et monologues, opéra en un acte
a cura di Nicola Bionda
Visto il 22 novembre 2018
Commissione Teatro alla Scala 
Versione drammaturgica di György Kurtág dal dramma di Samuel Beckett 
Prima esecuzione mondiale
Orchestra del Teatro alla Scala 
Nuova Produzione Teatro alla Scala in coproduzione con Dutch National Opera, Amsterdam 
Direttore: Markus Stenz 
Regia: Pierre Audi 
Scene e costumi: Christof Hetzer 
Light designer: Urs Schönebaum 
Drammaturgo: Klaus Bertisch 
CAST: 
Hamm: Frode Olsen 
Clov: Leigh Melrose 
Nell: Hilary Summers 
Nagg: Leonardo Cortellazzi 
Durata spettacolo: 2 ore
La prima mondiale di Fin de partie di György Kurtág è un evento da non far passare in secondo piano. Commissionata più di sette anni fa, programmata per ben quattro anni in cartellone, rimandata ogni volta perché non ancora completata, Fin de partie è il primo confronto con l’opera lirica da parte del compositore ungherese, famoso in tutto il mondo grazie a un repertorio limitato, quasi centellinato, di musica da camera e di composizioni che difficilmente raggiungono grandi durate ma che lo collocano da tempo al fianco dei grandi del secolo (Berio, Nono, Stockhausen…). Kurtág sceglie di mettere in musica solo alcuni quadri del dramma del 1957 di Beckett. Aggiungendo un prologo/dedica su Roundelay (una poesia dello stesso Beckett del '76), musicando il testo originale (o almeno una parte), parola per parola e modificando solamente piccoli particolari o aggiungendo qualche ripetizione. Una modalità rara in campo operistico. Con questa operazione Kurtág ha giocato, mossa dopo mossa, la propria partita, senza possibilità di risoluzione, tra l’arte e la vita. 

Sette anni di lavoro per raccontare in musica il senso tragico dell’esistenza evitando la trappola di un qualsiasi indirizzo interpretativo del testo. Rifuggendo da ogni tentazione di cedere alla sovrastruttura della tradizione. Mettendo a nudo la complessità e la contraddizione delle parole, che risuonano, in musica, ancora più potenti. Ancora più tragiche. Ancora più autonome da qualsiasi inquadramento narrativo. L’urlo di Hamm, il suo rantolo profondo da basso-baritono, i suoi sbadigli, sono il grido di un’umanità smarrita, l’urlo dell’angoscia e dell’impossibilità di soluzione di un’esistenza a cui non riusciamo a dare un senso e di cui non scorgiamo il compimento. Pesano persino i silenzi. Alcuni orchestrali passano quasi tutto il tempo a contare le pause, in attesa di un lampo, di una nota di una dissonanza. 

Il cimbalon, la fisarmonica russa (strumenti anomali in un’orchestra operistica), le percussioni (persino le unghie dei percussionisti sulla grancassa) e il pianoforte sono strumenti che tornano spesso nei lavori del compositore ungherese e che ci arrivano delicati, frammentati, onirici; a momenti violenti, grotteschi ma mai sopra le righe, in una partitura che annulla ogni possibilità di spettacolarizzazione in un concentrato denso, saturo di possibilità espressiva di voci e strumenti. Il suono è quanto mai vivo, fisico, quasi dotato di una propria corporeità. Capace di generare interrogativi profondi nell’ascoltatore, allo stesso livello del testo e della parola. Una musica essenziale, funzionale al testo di Beckett, un canto che nasce dalla musicalità stessa della parola (il testo è messo in scena nell’originale francese con un’attenzione maniacale alla dizione) e che ne è prolungamento, logico e naturale, nel tempo e nello spazio. Quest’Opera, profonda ed essenziale, rappresenta l’anima (una delle possibili anime) di un secolo intero. Profondamente radicata nel '900 ne contiene tutte le istanze e le intuizioni. Fin de partie è il culmine della produzione di un maestro che oggi, novantaduenne, si porta dietro tutto il peso e l’esperienza di un’intera esistenza. Una riflessione in musica sulla vita stessa. 

Questo Fin de partie rimarrà probabilmente tra le grandi scommesse vinte del Teatro alla Scala. Qualcosa che si studierà a lungo come un punto di riferimento, se non di ripartenza, della produzione teatrale contemporanea. Un’operazione dovuta, importante. Forse fondamentale. Ogni nuova Opera che appare in scena è sempre una boccata di ossigeno. Ci auguriamo veramente che il Teatro alla Scala prosegua in questa direzione, magari con il coraggio di rivolgere lo sguardo anche alle possibilità del nuovo millennio. Perché l’Opera, oggi più che mai, ha un estremo bisogno di contemporaneità.
  • @Ruth Walz
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