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Jesus: un punto di domanda che vi manderà in corto circuito
Torna a Milano la compagnia veronese Babilonia Teatri, due volte vincitrice del Premio Ubu; 2009 e 2011, con lo spettacolo Jesus sulla figura di Gesù a partire dalla sua storia, dalle sue parole e dalle sue azioni. Babilonia Teatri si è imposta sulla scena italiana grazie ad un certo tipo di sguardo su tematiche sociali. I loro spettacoli indagano la possibilità di stare in scena senza raccontare una storia, senza utilizzare dei personaggi, senza una relazione tra gli attori, senza ricorrere a meccanismi di finzione/immedesimazione soprattutto senza rinunciare all’utilizzo della parola. Risultato finale è un teatro dove l’attore mette il proprio corpo al servizio delle parole e delle immagini.
In questa cornice di lavoro, e ricerca, si inserisce l’ultimo lavoro della compagnia Babilonia Teatri: Jesus, scritto da Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco, con Valeria Raimondi e Enrico Castellani in scena presso la Sala Fassbinder del teatro Elfo/Puccini da martedì 5 a domenica 10 maggio 2015.
Abbiamo intervistato la compagnia Babilona Teatri prima del loro debutto.
Per chi non avesse ancora visto Jesus, abbiamo chiesto a Enrico Castellani, che cosa si devono aspettare gli spettatori?
Jesus, che ha debuttato a ottobre 2014 al Vie Festival di Modena, è uno spettacolo che come altri nostri lavori, a partire da un'esperienza diretta, tangibile, personale, vuole portare sul palco una riflessione di tipo sociale. Lo spettacolo esprime un intimo anelito di spiritualità, sia essa religiosa o laica, e un'impossibilità di trovare nella società, nel clero, nel mondo non tanto una risposta, ma una volontà altrettanto sincera di mettersi in ascolto e di cercare insieme. Jesus racconta anche l'ipocrisia, la violenza, il basso materialismo della società contemporanea utilizzando parodia e invettiva per scoperchiare la fragilità di scorciatoie e formule che vengono spacciate per ricette assolute.
Jesus è un punto di domanda. Perché si muore? C’è una possibile risposta?
Diciamo che nostro figlio ha riaperto delle questioni che erano state forti in altre fasi della nostra vita, in adolescenza ad esempio. Poi, in un modo o nell’altro, abbiamo deciso cosa eravamo, chi eravamo, in cosa credevamo e in cosa no. Nel momento in cui qualcun altro, tuo figlio, ti ripone queste questioni, è come se improvvisamente quelle domande che avevi messo da parte tornassero lì, davanti a te, e sbarrassero la strada. Sicuramente ciò che colpisce è la libertà con cui alcune questioni, che noi trattiamo come tabù, vengono trattate dai bambini col massimo della naturalezza se si dà la possibilità che vengano espresse e non si rendono immediatamente tabù anche per loro.
Grazie a questa innocente, ma complessa, domanda avete sentito il bisogno o la necessità di ritornare sul quel tema che sembrava essere liquidato con The end?
Siamo cresciuti in una cultura e in una terra impregnate di religione. È come se qualcosa di esterno, e semplicemente inculcato, un po’ alla volta fosse diventato una riflessione più personale. Ti poni delle domande che con The End abbiamo approfondito e che con Jesus, soprattutto dopo aver avuto dei figli, tornano a essere presenti proprio sul senso della vita. Anche la religione ti propone delle risposte rispetto al senso che ha stare qui, quantomeno nel suo senso più profondo. Jesus riflette su questa cosa, sul perché siamo qui. Da una parte riflette su che senso può avere per noi, dall’altra riflette sulla religione come qualcosa che vive nel quotidiano, dove diventa più una forma di controllo sociale che non un tentativo di rispondere a quelle che sono le domande dell’uomo.
Chi è oggi Jesus? Cosa rappresenta ma soprattutto chi lo rappresenta?
Jesus esprime un grande e forte bisogno di confronto e di condivisione, ci ricorda come il trovare attorno a sé una comunità o almeno un orizzonte di socialità sia fondamentale per confrontarsi con la propria e l'altrui spiritualità. Noi portiamo a teatro la lingua del mondo, e il pubblico ha la possibilità di vedersi rispecchiato. Di riconoscersi. Di realizzare che è di lui, e di noi, che stiamo parlando. Di realizzare che siamo fuori di metafora. Che non esiste la possibilità di chiamarsi fuori. Che possiamo ridere o piangere, provare amarezza o ghignare, ma accorgendoci che siamo un coacervo indistricabile di contraddizioni.
Preferite fotografare la realtà o metterla davanti ad uno specchio, riflettendola?
Specchio riflesso per noi significa fare un teatro che riesca a fotografare la realtà e quindi che, in qualche modo, ci metta davanti ad uno specchio. Proviamo quindi ad essere specchio della realtà e a mettere lo spettatore davanti a se stesso e l’indagine che svolgiamo parte sempre da noi, per porci domande da condividere con il pubblico, che però riguardano noi prima di tutto.
Colpo al volo l’ultima vostra frase e vi chiedo cosa vorreste che si portasse a casa uno spettatore dopo aver assistito ad un vostro lavoro?
Per noi il teatro deve creare negli spettatori dei cortocircuiti, ci auguriamo che i nostri spettacoli non lascino indifferenti. Che scatenino una necessità dialettica. Che brucino, corrodano e non finiscano con l'ultimo applauso.
Quanto amate creare, negli spettatori, dei cortocircuiti?
Con i nostri spettacoli miriamo ad andare al cuore delle questioni, senza pietà e ipocrisia, anche con ironia e cinismo, seguendo la nostra necessità di bruciarci e provando ad urticare, a provocare delle reazioni, dei cortocircuiti negli spettatori. E significa anche prescindere e attraversare i generi teatrali e fare della scena un luogo dove le cose accadono, dove le cose sono dette usando volumi e modalità che fanno in qualche modo staccare lo spettatore dalla poltrona. Per farlo abbiamo elaborato un linguaggio teatrale che sceglie di attraversare stili e codici diversi. Ogni spettacolo ha la forma che ci appare più efficace per esprimere i contenuti che vogliamo veicolare. Il linguaggio deve creare un corto circuito. Deve far scattare in chi guarda la necessità di interrogarsi su ciò che ha visto e ascoltato.
Dunque, per riuscire a fare tutto questo la mia prossima domanda, che è più una curiosità, è: come nasce un vostro spettacolo?
Per noi uno spettacolo inizia a costruirsi quando hai quaranta blocchi e inizi a muoverli e a spostarli, anche fisicamente visto che spesso abbiamo dei fogli con gli appunti o delle immagini, ragionando e cercando di costruire un corto circuito Le cose che noi accumuliamo, le nostre scritture, acquistano senso "dopo". Dalla sovrapposizione, dal confronto. È una playlist continua, una scaletta scelta tra i tanti materiali che abbiamo a disposizione. Scarichiamo da internet, scriviamo tantissimo, scegliamo le musiche... Cerchiamo di lavorare assieme, con compiti diversi, ma mai codificati: per i nostri lavori parliamo di "cura", di un "di e con". Scrittura e regia si mescolano nella composizione. Al di là di chi fa una cosa e chi ne fa un'altra. Parliamo tantissimo, confrontiamo le idee, lavoriamo "a tavolino" e poi verifichiamo continuamente la tenuta degli accostamenti sul palco. Siamo capaci di buttare via materiali che da soli potrebbero dar vita ad altri due o tre spettacoli.
Scrivendo i vostri testi, quali sono le difficoltà nell’interpretarli? Riuscite a tenere a bada i vostri personaggi?
Abbiamo scelto di non interpretare. Spesse volte abbiamo la netta impressione che la parola abbia un potere deflagrante. Che i nostri corpi sulla scena non abbiano la possibilità di raggiungere un grado di verità e di violenza in grado di eguagliare la forza della parola. Il peso specifico delle parole risiede nella modalità con cui vengono accostate e nell’atteggiamento con cui vengono dette. Nel dirle noi ci trasformiamo in una sorta di maschera contemporanea. A parlare non è quasi mai l’attore e non è quasi mai la persona. È una maschera che si fa portavoce di un sentire e di un pensare per consegnare ad altri la sua esperienza della realtà e del mondo. La rappresentazione della realtà passa quindi attraverso una rielaborazione del parlato. Attraverso un lavoro sulla lingua che ci permette di costruire dei testi che possono essere assimilati a dei rap, delle filastrocche, degli elenchi e dei tormentoni. Una forma di scrittura intimamente connessa alla recitazione adottata sulla scena. Recitazione atonale che prende forza grazie alla scrittura ritmica e sincopata. Recitazione che risponde all’esigenza etica di non stare mai sulla scena fingendo di essere qualcun altro.
I vostri spettacoli spaziando dal linguaggio visivo al video. Quant’è importante l’impatto visivo in un vostro spettacolo?
Nel nostro teatro l'uso delle immagini, come quello della musica, non è certamente a commento dell'azione, ma piuttosto un elemento fondante. Gli oggetti sulla scena sono reificati. Semplicemente scegliamo degli oggetti che da soli siano in grado di rappresentare la realtà. Verifichiamo che spostati dal loro habitat e posizionati sulla scena non vengano svuotati del loro senso, ma che coordinati coi nostri corpi il loro valore simbolico venga amplificato.
Potreste fare a meno della parola?
Nel nostro teatro la parola è un elemento molto importante, ma il peso che la parola ha resta sempre in relazione alle immagini che sulla scena vengono costruite. Il teatro è sempre per noi un’insieme di tutti gli elementi che abbiamo a disposizione, la parola, il corpo, i suoni, le luci e le scene. Si tratta sempre di comporre qualcosa che riesca a essere unitario, a diventare una materia che si compenetra tra i vari elementi.
Quando, e come, è avvenuto il vostro incontro?
Babilonia Teatri nasce nel 2005 dall’incontro di diverse persone che lavoravano con il teatro seppure in percorsi autonomi. È nata l’idea di uno spettacolo che avrebbe dovuto parlare della guerra in Iraq e si sarebbe dovuto chiamare “Cabaret Babilonia”. Lo spettacolo non ha mai visto la luce, e il gruppo che aveva lavorato a quell'idea ha poi visto l'evoluzione di ognuno in differenti percorsi artistici, ma siamo rimasti io e Valeria Raimondi e quel Babilonia da cui poi è nato il nome della compagnia.
È vero Jesus è un punto di domanda e se uno dei compito del teatro è quello di porre delle domande, più che dare risposte, allora questa è una di quelle occasioni in cui il teatro ha ancora un senso e per dare un senso alle vostre prossime serate, andate a sostenere un certo tipo di teatro contemporaneo presso il teatro Elfo/Puccini. Avete tempo fino a domenica 10 maggio. Babilonia Teatri aspetta anche voi.
(Foto di Eleonora Cavallo)
Jesus: un punto di domanda che vi manderà in corto circuito
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