durata: 135 minuti (con intervallo)
Nella sua regia, Alessandro Serra sottolinea questo senso di decadenza, che permea un'opera di passaggio tra Ottocento e Novecento, tra aristocrazia e borghesia, nel canto di cigno della prima, che perde il suo possedimento terriero, coltivato con quegli alberi di ciliegio che nelle filosofie orientali simboleggiano la caducità della bellezza, l'impermanenza. I personaggi inizialmente, nella prima scena della stanza che «ancora oggi si chiama “dei bambini”», sono stesi per terra, a parte quelli in scena, recitanti. Da un lato si sottolinea quella narcolessia, quel carattere dormiente, quella senilità che non riguarda solo i vecchi, in questo caso il maggiordomo Firs, che caratterizza molti personaggi cechoviani, che si trascinano a stento sulle loro galosce. Da un altro lato Serra rende così brillantemente la struttura dei tipici cambi scena dell'autore, secondo quel meccanismo classico fatto di entrate e uscite dei personaggi. In una successiva scena poi lo stesso effetto di ritaglio dei personaggi è resa con una loro messa in posa in un fascio di luce, come in una vecchia fotografia, un quadretto. Il che porta a un'altra grande direttrice dello spettacolo, quella delle proiezioni, dei giochi di ombre, tra fotografia e pre-cinema. Cui poi si aggiungono i macchinari, gli ingranaggi, che richiamano a quell'epoca di transizione, tra Ottocento e Novecento. Evitato qualsiasi naturalismo e qualsiasi rappresentazione, neanche stilizzata, degli alberi di ciliegio, e la scena finale, che combacia con il loro taglio, è resa creando un groviglio di sedie, poi sospeso con una corda. Un ammasso metallico informe, come un accartocciamento.
Proprio Čechov ha consegnato una delle riflessioni più alte sull'arte con Il gabbiano, nel delineare la figura dell'artista inquieto, Kostja, che passa dalla necessità di nuove forme, da giovane, alla creazione svincolata da qualsiasi forma, che scaturisca dall'anima, temendo di ricadere in una nuova routine, nella maturità. Il furore artistico che nasce come ansia di sperimentazione, di rottura per poi diventare manierismo. Questo Giardino dei ciliegi, di Alessandro Serra, visto nell'ottica di queste due direttrici, appare più adagiato nella seconda, quella dell'accademismo, nonostante il suo potenziale visivo, in alcune scene notevole. Il lavoro nelle pause, il lavoro di creazione nelle pieghe del testo, il lavoro sulla ricerca e messa in scena dei conflitti, le partiture fisiche, la danza, il teatro corporeo: tutte cose che fanno parte di uno stile già abbondantemente visto, derivativo, così come quella prevalenza di monocromi che riportano al bianco strehleriano. L'ombra dei maestri è evidente, a partire da Nekrosius, di cui tornano per esempio l'effetto scenico delle sedie disposte sul palcoscenico come nel suo Gabbiano fatto con attori italiani, o quella matericità nella scena del lancio della terra.
@Alessandro Serra