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La scuola delle scimmie
a cura di Francesca Romana Lino
Visto al Teatro Filodrammatici il 27 gennaio 2018
con Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Luigi Aquilino, Sara Bertelà, Silvia Lorenzo, Giancarlo Previati, Irene Urciuoli 
scene e costumi Erika Carretta | disegno luci Fabrizio Visconti | video Francesco Frongia | regia Bruno Fornasari 
movimenti coreografici Marta Belloni | assistente scene e costumi Federica Pellati |direzione tecnica Silvia Laureti | assistenti alla regia Gaia Carmagnani, Ilaria Longo 
produzione Teatro Filodrammatici di Milano con il sostegno di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo – Progetto NEXT 2017/2018 

25 gennaio / 11 febbraio 2018
In prima nazionale La scuola delle scimmie è l'ultima produzione del Teatro Filodrammatici di Milano. Testo e regia di Bruno Fornasari, in scena, fra gli altri, Tommaso Amadio co-direttore artistico. Un tandem oramai collaudato come rodato è, del resto, lo stile: quella recitazione fulminea e fulminante, rubata, quasi, a una premura tutta meneghina – a Milano “premura” significa “fretta” non “accortezza” – e un ritmo a mitragliatrice all'interno di quadri brevi. L'intento è quello d'intrattenere e divertire, ma in modo intelligente, un pubblico, che mai debba sentirsi intimorito o annoiato approcciandosi al medium teatrale. Questa la mission, encomiabile, di Fornasari/Amadio; già, ma, se certo non manca d'intelligenza, il testo, forse non è altrettanto adatto a essere porto attraverso questa forma recitativa.

 Il plot dice del parallelismo fra la storia vera del caparbio supplente di biologia John Scopes – processato, nel Tennessee del 1925, per aver violato la prescrizione che vietava l'insegnamento della teoria darwiniana nelle scuole – e quella, inventata, del collega che, in un liceo di periferia dell'Italia del 2015, si trova a dover combattere contro le idee di una dirigente scolastica strategicamente conservatrice. Poi – lo vedremo –, le cose sono un po' più complicate di così. Scopes, infatti, ha a che fare col pregiudizio bigotto dei creazionisti – in sottofondo le voci e i roghi degli incappucciati del Ku Klux Klan –, fino al paradosso di venir accusato di aver montato il caso ad arte solo per creare attenzione e ricadute economiche sul piccolo centro cittadino – a vantaggio di quella classe di commercianti ed albergatori fra cui spiccava lo stesso padre del ragazzo –; il professore dei nostri giorni, invece, deve vedersela anche con le accuse di molestie ai danni di un'intraprendente studentessa minorenne, oltre che col pregiudizio legato al suo personalissimo tentativo di riabilitare il fratello, convertitosi all'Islam e poi divenutone martire volontario: lo fa iniziando a scrivere un manuale sulle religioni ad usum degli adolescenti, proprio per scongiurare il fanatismo, in quale che sia forma o espressione. In entrambi i casi, la battaglia personale per la difesa della libertà di pensiero, poi, si mescola a basse illazioni e a una complessità di situazioni umane, fatte di difficili relazioni familiari e da ancor più fragili rapporti personali. 

Come si racconta, una storia così complessa e con una tal molteplicità di livelli narrativi, ma anche teorici e drammaturgici? Una storia con così tanti spunti di riflessione, argomentazioni e riferimenti all'etica, politica, filosofia, teologia, scienza e contemporaneità? Fornasari sceglie di farlo alla sua solita maniera: dialoghi fulminei, battute fulminanti, sequenze narrative brevissime – ricordate? Intrattenere senza annoiare... –, ritmo incalzante, continui cambi scena e un'agilità di dizione tale da offrire al pubblico lo spettacolo di un'incessante fuoco d'artificio. Questa la sua cifra; ma, se l'esito era stato felice in N.E.R.D.s., ad esempio, che, in maniera analoga, strizzava già l'occhio alla questione del darwinismo e portava in scena attori zoomorfi a tratti – con divertenti teste di paperi, lì; qui, di scimmioni –, in questo La scuola delle scimmie l'ambizione testuale alza il tiro e le tematiche acquistano un'esigenza argomentativa, che il rapidissimo scambio di battute non facilita.

Gli stessi attori – anche quelli dalla professionalità comprovata come Sara Bertelà, Giancarlo Previati, Emanuele Arrigazzi e lo stesso Tommaso Amadio – sembrano annaspare nel tentativo di tenere ritmo e velocità di battuta; così davvero rischiano di sembrare anch'essi come quei foreign fighters, che, nel film dell'artista visuale ex compagna del professore interpretato da Amadio, altro non si rivelano essere che “scimmie ammaestrate”. Probabilmente un po' è intenzionale: chi, infatti, può davvero dirsi esente dalla manipolazione di un suo personale Gran Burattinaio? Siamo tutti davvero così immuni da ogni forma di fanatismo, ideologia o anche solo dall'interpolazione dei rapporti personali? Questi, alcuni spunti di riflessione davanti a cui ci inchioda il testo. É che, forse, poi uno scritto del genere avrebbe bisogno di concedersi e di concedere un altro respiro.

Le argomentazioni e le domande – importanti, come quelle sulle prove dell'esistenza di Dio, ma anche sull'onere della dimostrazione della sua non-esistenza; o quelle sul fanatismo religioso, sì, ma anche sul quell'altra sorta di fanatismo che può diventare una difesa quia absurdum di una posizione scientista e progressista coute-que-coutevengono buttate più e più volte sul tappeto: liquidate, in minima parte soltanto, ad ogni passaggio, e così di nuovo escusse e poi di nuovo liquidate in un movimento ripetitivo che, come l'infrangersi delle onde sul bagnasciuga, non si esaurisce mai del tutto, ma nuovamente sente il bisogno di riproporsi. Quel che ne vien fuori è un testo un po' verboso, che, per quanto vivacizzato da un piglio veloce e frizzante, inevitabilmente appesantisce la fruizione. In questa stessa direzione vanno anche i continui cambi di scena solo di rado agevolati dalla continuità dell'azione, ma che più spesso invece si risolvono in chiose statiche. Nella penombra assistiamo all'entrata sul palco di personaggi-scimmioni, che si svelano solo servi di scena mascherati “a tema”, ma senza alcuna valenza narrativo-denotativa; chissà che, a luci accese, non si caricherebbero invece di un ulteriore significato denotativo. Di fatto, il loro frequente sgomberare e poi riapparecchiare crea interruzioni non sempre funzionali alla continuità. A qual pro? 

Le atmosfere e i dialoghi sono così sitcom surreali, a tratti, che cosa ci dà, in più, la pur ingegnosa e versatile scenografia scomponibile? Siamo abituati a rinunciabile a un'ambientazione simil-realistica, specie in una convenzione teatrale che certo non lo pretende, specie laddove l'elemento decorativo finisca col sortire un esito contro produttivo come nel caso dell'imponente albero, che, però “tanta parte dell'orizzonte esclude” al pubblico del settore di destra, che, a fatica vede i video, del resto spesso più di commento che parte integrante della narrazione. Discorso analogo per le invasioni de/dalla platea: tutti espedienti, questa un po' la sensazione, di chi tema che argomentazioni di tale spessore possano annoiare o non intrattenere in modo adeguatamente divertente il proprio pubblico. Peccato. Peccato perché gli attori, specie alcuni, sono di spessore e, peccato, perché, a trattarle con giusto ritmo e respiro, anche le tematiche certo non sono di scarsa urgenza o interesse.
  • @ V.Porta 
    @ V.Porta 
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