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Per un teatro artigianale: intervista a Gennaro Cannavacciuolo


Gli esordi, appena ventenne, con Pupella Maggio e quindi con Eduardo De Filippo. Una ininterrotta ed eclettica carriera che parte e torna al teatro, passando per cinema e televisione e spaziando dall’operetta alla commedia. Un’infinità di premi ed onorificenze, fra cui un Premio ETI Olimpici del Teatro 2009 e la Medaglia Onorifica conferita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della Giornata dello Spettacolo ai premiati dell'ETI nello stesso anno.
Gennaro Cannavacciuolo è senza dubbio una importante figura di riferimento per un tipo di teatro quasi scomparso, che ha caratterizzato lo spettacolo italiano moderno e che ancora oggi conquista un numeroso pubblico, nostrano ed estero, come dimostrano le sue turné. Negli ultimi anni ha infatti deciso di accettare meno scritture per dedicarsi ad approfondire i propri interessi nei confronti di figure artistiche particolari, come l’attrice Milly, prima interprete brechtiana  in Italia, o Domenico Modugno, a cui è dedicato Volare. Come tutti i suoi omaggi, quello a Modugno è basato su una scelta accurata e non banale di canzoni, proposte secondo un filo più emozionale che logico, filtrate da una sensibile e personalissima interpretazione e cesellate attraverso un lavoro artigianale e minuzioso sul corpo e sulla voce. Lo abbiamo incontrato durante le repliche dello spettacolo, attualmente in scena al Teatro della Cometa di Roma con la regia di Marco Mete e il contributo musicale dal vivo di Marco Bucci ( pianoforte), Claudia Della Gatta (violoncello), Andrea Tardioli (clarinetto e sax contralto).
Sei depositario non solo di testimonianze dirette importanti, ma anche di un certo modo di fare teatro ne senti la responsabilità?
E’ innanzitutto un privilegio: sono stato uno degli ultimi allievi della scuola di Eduardo e Pupella. Purtroppo oggi di maestri non ce ne sono più, si contano sulle dita di una mano: mi vengono in mente solo Gluaco Mauri e, per un altro genere di spettacoli, Proietti. Però è vero, mi sento anche dotato di una buona dose di responsabilità. Mi piacerebbe trasmettere a dei giovani, ma penso sempre di non avere imparato abbastanza per poterlo comunicare alle nuove generazioni. Sono anche stato tacciato di presunzione per aver rifiutato di andare ad insegnare in alcune scuole, quindi in effetti più che responsabile mi sento un po’ irresponsabile, ma molto probabilmente ci arriverò, perché è giusto.
Quali sono i segni più evidenti che ti ha lasciato lavorare con Eduardo?
Quando forma la compagnia di Luca, nell’80, entro anch’io, ventenne. Eduardo era il regista. Ho fatto 6 allestimenti  diretto da lui, fra cui due sue commedie. E’ stata un’esperienza meravigliosa, poi sono tornato con Pupella…. Le tracce sono la serietà con la quale affrontare questo lavoro, la chiarezza, la devozione. E’ una specie di missione: il rispetto per il lavoro, la fatica… fare teatro è una vita di sacrificio, bisogna lavorare tutto il giorno, studiare le canzoni per mesi, chiusi in camere d’albergo a ripassare per ore le parole, perfezionare. E’ artigianato. Eduardo considerava il teatro come una Chiesa, non si poteva parlare, perché occorreva concentrarsi sulla missione. E’ giusto, davanti a una platea hai una responsabilità, è un bell’impegno.
Esiste oggi un teatro napoletano? Una identità teatrale partenopea?
Esiste una uova teatralità, dopo Eduardo c’è stato il boom della nuova drammaturgia contemporanea, che per fortuna ho avuto anche il piacere di rappresentare, con i tre più grandi commediografi dopo Eduardo: Manlio Santanelli, il compianto Annibale Ruccello e Enzo Moscato. Per me esiste questa forza e questi sono tre autori validi.
La realtà teatrale romana ha gli stessi limiti di quella napoletana?
Napoli è una città difficile, non ci vado da 5 anni, ci sono situazione politiche prepotenti, un paio tengono le fila del teatro. Io ho sempre fatto scelte difficili, senza mai attaccarmi a nessun carro, nè politico, nè mangereccio, ne di sofà. Faccio quello che voglio e chi viene a teatro so che vuole vedermi perché mi stima. Diversi teatri napoletani lavorano solo su nomi commerciali, hanno paura di affidare il teatro ad esperimenti più particolari, seppur per breve tempo. All’estero si programmano spettacoli commerciali ma anche prodotti di nicchia, si rischia, qui no. Io vado avanti lo stesso, però non vado a Napoli. Vado all’estero e lavoro in italiano - in Francia ad esempio - con sottotitoli o con parti tradotte. Gli stranieri amano molto la nostra mimica, ci sono teatri all’estero che programmano solo spettacoli in lingua straniera senza sottotitoli.
Parlando di pubblico, come si conquista quello in sala?
Pupella diceva sempre Il pubblico non è assolutamente stupido, capisce. E un tuo ospite, devi trattarlo bene e non puoi barare, perché se ne accorge. Devi essere te stesso, con umiltà, con semplicità, senza presunzione.
Volare racconta unItalia popolare, sentimenti e momenti di un Sud che ha precisi connotati culturali: quanto di questo mondo esiste ancora?
Avendo modo di girarla ancora in lungo e largo, ti posso assicurare che esiste un’Italia ancora sognatrice e genuina. Si trova nei paesini, in Sardegna ho trovato una vita ancora un po’ allo stato naturale, ma anche nelle Marche, c’è una cittadina meravigliosa, Treia, da cui sono rimasto molto colpito, dove esiste una dimensione umana. Il problema è che questo non si riscontra nella grande metropoli, dove tutto è soffocato da un consumismo da quattro soldi, da problemi, pressioni, da tutto un sistema commerciale legato al “progresso”. Ma un’Italia così c’è e ci serve, soprattutto in questo momento.
Hai vissuto il diretto contatto con le radici del teatro italiano... Cosa è cambiato? Di cosa avrebbe bisogno oggi il teatro italiano?
Sicuramente manca il pubblico, perché manca la cultura: il teatro non è più quello che si faceva 30 anni fa. Adesso è omologato, con copioni presi dalla tv, tutti uguali. Fra i cartelloni di Roma, 7 o 8 hanno praticamente lo stesso repertorio, sono delle vere offese al teatro impegnativo, culturale, come siamo stati abituati ad avere. E’ un momento teatralmente molto scarso, per questo, oltre che per la mancanza di fondi e di maestri. Un teatro come l’Eliseo è chiuso, è sempre più difficile trovare prodotti di qualità… la gente vuole ridere, ma non si può sempre ridere, e comunque anche una commedia di Faydeau fa ridere. In Volare si ride perché, come diceva Eduardo, ci sono delle situazioni intelligenti di comincità”. Negli anni ’40 e ’50 si andava a teatro e si rideva molto, senza bisogno di parolacce, oggi mancano il gusto e la cultura. Anche fra i giovani attori, tranne quelli che fanno le Accademie: la cultura la fa la televisione, ci confonde la regia teatrale con quella televisiva, un’attrice di teatro lavora 30 anni per formarsi, non è che chiunque si può dire attrice.
Fai anche tanto cinema, non ti chiedo cosa preferisci ma cosa cambia, come attore, a lavorare su un personaggio che va in scena o davanti ad una telecamera?
Non c’è grande differenza, ma molte volte sul set ho avuto il rammarico di finire una scena dopo qualche ciack e poi avere la sensazione che avrei potuto fare di meglio. Il personaggio teatrale invece hai più modo di costruirlo, perché ci lavori per tanti giorni di prove, poi sera dopo sera hai modo di maturare. Il divertimento invece è molto diverso. In teatro c’è il batticuore, l’emozione, la sfida, c’è la voglia di scappare… sul set sai che lo puoi fare 30 volte, certo, devi essere preparato, avere concentrazione, ma sai che se sbagli c’è un’altra possibilità. Qui se sbagli fai una brutta figura, va gestito l’errore, la fatica, l’energia, il raffreddore… non è una cosa facile.
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