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Il mito smitizzato in Mater Dei
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Carignano di Torino mercoledì 19 agosto 2020
testo inedito di Massimo Sgorbani; regia, spazio, costumi Giorgia Cerruti 

con Giorgia Cerruti e Davide Giglio 

assistente alla creazione Fabrycja Gariglio; musiche originali, sound design, fonico Guglielmo S. Diana; style e visual concept, disegno luci Lucio Diana; realizzazione scenografia Domenico De Maio; maschera Michele Guaschino; realizzazione costumi Roberta Vacchetta 

Produzione Piccola Compagnia della Magnolia; spettacolo realizzato con il sostegno di Armunia e di Residenza Idra e Teatro Akropolis nell'ambito del progetto CURA #Residenze Interregionali 2018. In collaborazione con Festival delle Colline Torinesi / Creazione Contemporanea con il sostegno di TAP Torino Arti Performative
Madre regina e figlio principe abitano uno spazio isolato dal mondo, con la donna occupare il trono ligneo posto su di una pedana circondata dal recinto d’acqua al cui interno il figlio, efebo di bianco vestito, si trascina a forza di mugugni e grugniti: è in questa cornice che la Piccola Compagnia della Magnolia ambienta il suo Mater Dei, testo di indubbia forza di Massimo Sgorbani allestito dal collettivo torinese in ottanta minuti filati di un teatro ispirato al mito con chiare ed evidenti derivazioni pop.

Sgorbani è scrittore di lungo corso, e come tutti i professionisti della scrittura sa bene che affrontare il mito classico può essere impresa rischiosa: sceglie quindi di demitizzare il mito, affidando alla componente umana il racconto del dio che feconda una donna mortale, lasciando così in disparte l’elemento divino, presenza-assenza destinata a riecheggiare nelle parole della sua vittima in quei panni zoomorfi cui la tradizione classica ci ha più volte abituato: suddivisa in segmenti con titoli esposti al pubblico su fogli di carta, come le riprese di un incontro di pugilato, la narrazione ripercorre l’incontro-scontro tra la donna ed il dio, tra l’umano ed il divino, secondo una precisa dinamica consequenziale che prevede approccio, violenza, abbandono. Le immagini sono forti, il linguaggio si fa sempre più crudo, a tratti forse eccessivo, se c’è da dire "minchia" lo si dice, se c’è da evocare "la sborra" lo si fa, e questo forse è il limite maggiore di una scrittura che talvolta si attorciglia su se stessa insistendo oltremodo nell'evocazione di un crudo immaginario: al netto di alcuni dettagli è comunque chiara l’intenzione dell’autore di ripercorrere, smontando, la consolidata lettura di un mito cui dedica sul finale alcune concessioni con la madre-Medea pronta a trafiggere il suo stesso figlio.

Dovendosi confrontare con un tale magma verbale i due interpreti scelgono la totale immersione realizzando uno spettacolo, sferzato da continue suggestioni vocali e fisiche, dove la figura dell’attore diventa il tramite per la decodifica di una parola "altra" riconducibile ad un universo "altro": è cosi per il poco amato figlio, tredicesimo nato dopo un parto infinito, corpo di uomo adulto in una testa da bambino che solo alla fine, sul calar del buio, riuscirà a proferire per tre volte la parola mamma. Bestemmia vivente dimenticata dal padre, a mala pena sopportato dalla madre, il figlio "sbagliato" di Davide Giglio è un'embrionale creatura tanto silenziosa quanto umana nei lunghi silenzi come in gesti appena abbozzati, nei beluini mugugni come nei rari ma sinceri slanci alla ricerca di un amorevole incontro materno.

Lato suo Giorgia Cerruti è una mater di intensa fisicità a partire dall'ingresso in scena sulle note di una delle tante musiche pop: occhiali di sole, veste bianca che non esita ad aprire per mostrare quel seno ancestrale simbolo di maternità, ma anche chiaro richiamo all'incontro sessuale, la Cerruti esce alla distanza nel suo delirio verbale di donna prima sedotta, poi abbandonata, ed ora madre non così felice, e forse neanche tanto degna, di un ingombrante fardello verso il quale alterna atteggiamenti di attrazione e repulsione. La sua è un'importante prova di attrice in grado di spaziare da una recitazione carnale e fisica, la descrizione dell’incontro con il divino, ai toni in apparenza più serafici e concilianti della relazione con un figlio che la segue come un’ombra, trascinandosi in quell'acqua amniotica di una sofferta e dolorosa maternità.  
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