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Società in putrefazione e massacri di Stato: intervista a Stefano Ricci e Gianni Forte
Si formano tra l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e la New York University, studiando rispettivamente con Luca Ronconi ed Edward Albee. Nel 2006, dopo una breve parentesi in qualità di sceneggiatori, si dedicano al teatro mietendo successi con Troia’s Discount, Macadamia Nut Brittle, Pinter’s Anatomy, Grimmless, Still Life e Darling. Hanno portato il made in Italy all’estero, partecipando anche a diversi festival in Francia (Europe&Cies/Lione), Romania (Underground Theatre/Arad), Inghilterra (Lingering Whispers/Londra) e Germania (Glow/Berlino).
 
Stiamo parlando del duo ricci/forte in scena presso la Sala Fassbinder del teatro Elfo/Puccini dal 9 al 14 dicembre 2014 con lo spettacolo Still Life con Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera e Francesco Scolletta.
 
Abbiamo avuto il piacere di incontrare i due autori-registi prima del debutto milanese dello spettacolo che hanno firmato nel 2013 per la rassegna Garofano verde Still Life dove additano nell'ipocrisia sociale la causa di certe forme di violenza contro la diversità.
Un “contributo” quello di Ricci/Forte per tentare di combattere la discriminazione ma anche un "omaggio" da parte di Ricci/Forte per ricordare uno dei tantissimi adolescenti che si è tolto la vita impiccandosi.
Still Life è uno spettacolo dedicato a Davide. Chi era Davide e qual è stato il punto di partenza che vi ha portato a partorire un lavoro come Still Life, da voi ribattezzato “massacro a cinque voci per una vittima”?
Il nome di battesimo, il caso di cronaca, è solo la punta emersa di un iceberg in continua formazione. La catena di delitti di Stato, perché è questo il nome reale da attribuire a questi apparenti suicidi, non si è mai arrestata. Nomi su nomi si accavallano a raccontare il terrore del branco di fronte a qualcosa di differente; uno spauracchio che mina la certezza bovina di chi insegue e si sviluppa in dettami omologanti. Still Life, intitolato proprio come ennesima variante di una natura morta, un’opera pittorica o fotografica che prova a radiografare il momento contingente, rivela l’ostinato silenzio governativo su un sistema legislativo che tuteli i diritti di ogni cittadino provvisto di fantasia.
La prima immagine di Still Life è di forte impatto visivo: lumini rossi, quelli che solitamente poniamo sulle lapidi dei nostri cari al cimitero, e proiezioni di una serie di nomi. Giovani, o meglio giovanissimi, morti perché omosessuali. Ma è mai possibile decidere di morire perché diverso?
Non si decide mai di lanciare i titoli di coda della propria esistenza, a meno che il presente intorno non ci risulti talmente violento e indissolubilmente asfittico. Il nucleo dell’indagine si focalizza su un binario che non è quello del massacro contro una identità sessuale: è la stramaledetta paura fottuta della differenza. La Fantasia viene vissuta come un insulto al bisogno di gregge e omologazione nel quale fermentare e consumare le proprie vite borghesi. La frustrazione del branco tende a vessare e rifiutare chiunque metta in discussione la mediocrità delle loro anime da quattro soldi, costringendo alla autosepoltura di spirito vitale e ideali.
Bullismo omofobico, discriminazione e mobbing psicologico. Qual è il ruolo che ricoprono gli attori in Still Life?
In questo spettacolo, più che in altri dell’ensemble, non ci sono ruoli da ricoprire. Non esistono più attori in un teatro del Presente: ci sono persone, performer, esperienze di vita che vengono condivise per edificare una architettura poetica che si opponga al qualunquismo dell’intrattenimento, caro a tanta industria teatrale italiana. Il pubblico si rende conto immediatamente che il tema trattato, i passi in scena sono imbastiti a doppio filo con le esperienze private degli interpreti coinvolti in questo viaggio.
Un “viaggio” dove Ricci/Forte fanno vedere un germe che si annida ovunque.
Il vostro teatro è molto fisico, però in molti vi accusano di troppa violenza fisica (la bravissima Anna Gualdo approfittò di questo spazio per chiedere ai suoi colleghi ronconiani di smetterla di vedere solo gli schiaffi che prende in scena, rassicurandoli che gli farebbero un gran bene anche a loro...!), forse perché non riusciamo a vedere la capacità che avete nel rendere visibile qualcosa che abbiamo sotto il naso, ma che non vogliamo più vedere?
La superficialità della fruizione nell’esperienza vitale, questo è il nocciolo affrontato in questa performance.
Uno sguardo spento, viziato, che si ferma a pelo d’acqua e si sazia con la confezione. L’ultimo ventennio di televisione ha reso inesorabilmente putrescente l’occhio che guarda, impedendogli una discesa verticale. La gestione delittuosa dei social network con l’apparente gestione globale dei rapporti interpersonali ha, in realtà, mortificato la capacità relazionale illudendoci di conoscere l’altro esclusivamente sul perimetro del visibile.
Per questo motivo vi hanno definiti gli “enfant terrible” del teatro contemporaneo?
Per questa ragione c’è bisogno di mettere etichette a qualunque cosa, con una sindrome da archivista che smania per dare una collocazione ad ogni frullare d’ali, come se una targhetta diventasse il collare per portare al parco un cucciolo di una specie che non riconosciamo ma di cui, però, ne temiamo lo sviluppo.
I vostri spettacoli suscitano sempre forti emozioni (positive o negative) grazie alle immagini che riuscite, attraverso i vostri performer e gli oggetti di scena, a ricreare. Difatti, in rete, le fotografie delle vostre performance sono forse le più belle che circolano da anni a questa parte. Secondo voi il vostro successo è dovuto anche alla vostra capacità di comunicare attraverso i social media? Vista l’attenzione da parte del pubblico che vi osanna come delle star, cosa che nel teatro italiano si è un po' persa.
L’attenzione e la stima ricevuta in questi anni è indotta esclusivamente dalla coerenza del nostro fare. Anno dopo anno, performance dopo performance, abbiamo provato a mantenere una rotta creativa che venisse continuamente nutrita da correnti etiche. I performer prima, i fotografi poi, tecnici e assistenti, tutto l’equipaggio che ha contribuito al Viaggio con generoso talento, ha permesso di realizzare il nostro immaginario. Un seme che si innesta sotto le unghie, attraverso i pori di una platea, e ne determina il sentimento che ci viene donato e palesato in maniera crescente.
Quanto è importante la parola nei vostri percorsi?
Fondamentale, esattamente quanto la vibrazione espressiva di un tendine.
Cosa vorreste che si portasse a casa uno spettatore dopo aver assistito ad un vostro spettacolo?
L’ombra di un dubbio, la possibilità di un cambiamento, il gusto di una differenza, la gioia dell’incontro con un amico fraterno, la rivelazione di un sole interiore.
Vi da fastidio quando scrivono; “spettacolo adatto a un pubblico adulto”? Quando, forse, sarebbe il caso di educare da subito i giovani verso un teatro in continua evoluzione?
Nessun fastidio, semmai costernazione per l’ennesima conferma di vivere in un paese sottosviluppato alle soglie del 2015.
Oggi il teatro, secondo ricci/forte, in quale direzione sta andando?
Si modifica insieme al nostro gusto, ai nostri interrogativi, sempre curioso e famelico nel tentativo di trovare moduli espressivi efficaci per scardinare prima noi stessi e poi l’apatia generalizzata.
Negli ultimi anni, visto il successo riscosso, avete portato in giro per tutta Europa e oltre diverse vostre performance. Il pubblico estero come ha reagito?
All’estero si vive il tempo presente, non un eterno passato. Nessuna necessità di analizzare l’ipotetico scalpore per i centimetri di epidermide esposta ma un limpido ascolto per una ricerca drammaturgico/visuale che ci rende cittadini di un pianeta, togliendoci dalle narici quell’odore da pollaio che si respira puntualmente in un’arena italica.
Gianni, sappiamo che hai scelto di trasferirti a Parigi. Cosa ti ha spinto a scegliere questa città?
Gianni Forte: L’esigenza di aria tersa, alta quota, che non riuscivo più a trovare. Avevo bisogno di dilagare sempre più fuori dai percorsi obbligati; di frugarmi sottopelle, all’interno del mio sistema venoso, passando per le anse dello stomaco, per tornare a vedere le cose con il cuore, come dice la volpe al Piccolo Principe. Come nel recente Interstellar, Roma, l’Italia li sentivo ormai moribondi e destinati all’estinzione, in preda all’aridità e alle tempeste di sabbia spacciate per Arte. Tramortito dal fracasso e dai paradossi, stanco dei giochi politici, delle conventicole, dell’arroganza borghese di certa pseudocritica romana, così priva di etica e unicamente interessata al potere micragnoso che non ha: un senso di caducità intollerabile che mi ha sospinto a esiliare, come un trafficante di miti, alla ricerca di probabili nuove fonti energetiche.
Ritornando al forte impatto visivo scenico delle vostre performance, mi viene in mente il cinema. Tempo fa circolava la voce di un vostro film... ci state lavorando?
Ci stiamo lavorando seriamente. Ci sono i produttori (Italia e Francia), abbiamo il tempo necessario per farlo germogliare. I motori sono già accesi, sta prendendo luce, decollerà e sarà presto una nuova, ennesima virata.
... un’ennesima virata che noi tutti stiamo aspettando, anche il nostro cinema ha bisogno di una bella scossa.
Un avviso per gli spettatori:
si comunica che durante lo spettacolo Still Life verranno utilizzate acqua e piume che potrebbero raggiungere alcune file di platea. La Compagnia avvisa inoltre che, ad inizio e fine replica, è previsto il coinvolgimento di parte del pubblico.
(Foto di Barbara Oizmud, Francesco Paolo Catalano, Nene Malingamba)
 
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