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La (non) vita nel sottosuolo de LA SIGNORINA GIULIA 
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Gobetti di Torino venerdì  11 novembre 2022
di August Strindberg 

adattamento e regia Leonardo Lidi 

con Giuliana Vigogna, Christian La Rosa, Ilaria Falini 

scene e luci Nicolas Bovey; costumi Aurora Damanti; suono G.U.P. Alcaro

Produzione Teatro Stabile dell’Umbria in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi
Parafrasando Primo Levi è un universo di sommersi e (non) salvati quello che abita, nella rilettura di Leonardo Lidi, gli angusti spazi de La signorina Giulia, atto unico di August Strindberg capace ogni volta di infilarsi nello spettatore come lama nel burro: di esistenza sommersa si deve parlare considerando l’ambientazione spaziale, claustrofobica scena a forma di T in orizzontale, forse a rappresentare l’incontro-scontro dei differenti contesti sociali dei personaggi, da percorrere strisciando o con la schiena piegata, postura fisica che riflette la passività esistenziale che tanto la giovane contessa, quanto il servo Giovanni e la di lui fidanzata Cristina, si trovano a vivere da prospettive diverse.

Da attento "lettore" delle partiture drammaturgiche, nel suo adattamento Lidi rilegge i caratteri immaginandoli come creature del sottosuolo, uomini e donne prigionieri nel fisico quanto in uno status mentale da cui sono incapaci di liberarsi, di uscire all’aperto, per vivere la condizione di giovani affamati della vita: ed invece, nella notte di San Giovanni in cui semel in anno licet insanire, quella stessa vita li fagocita ed annienta, portando impietosamente a galla l’atavica solitudine e l’incapacità di uscire dalla loro tana. Se nel teatro di Strindberg carnefice e vittima sono spesso al centro di un gioco al massacro in cui si scambiano i ruoli, così nella Signorina di Lidi il rapporto padrona-servo, o meglio padrona-domestico come tiene a precisare Giovanni, è di continuo messo in discussione nella rappresentazione di dinamiche relazionali ed affettive attraversate da pulsioni carnali come istinti di morte: in scena la parabola si risolve in ottanta minuti filati dalla struttura circolare dove tutto inizia e termina con un sogno, quello dell’ascesa verso una non meglio precisata vetta raggiunta la quale la vertigine dell’alto è foriera di una disarmante solitudine. Ed è proprio in una condizione di perenne bilico tra sogno ed incubo che lo spettatore prova la sensazione di trovarsi al cospetto della Signorina di Giuliana Vigogna, contessina dal candido costume, il bianco come colore della morte, a differenza dell’originale strindberghiano decisa a percorrere a pieno una via crucis segnata dall’idea di sottomissione e dipendenza da quel genere maschile di cui Giovanni, il sempre bravo Christian La Rosa, incarna alla perfezione fragilità e debolezze nell'attesa di un qualcosa che non c’è, la presenza del Conte o i semplici sguardi altrui. Si aggiunga la cuoca Cristina di Ilaria Falini, isolata nella scena quasi a far da trait d’union tra la non vita del palco e la vita della platea, e spesso sprofondata in un sonno dove si materializzano gli incubi del rapporto con Giovanni, per un terzetto cui vanno tributati convinti e meritati applausi in uno spettacolo che nelle fattezze dei personaggi ritrae molti giovani di oggi, abitanti di un tempo sospeso cui sembra esser preclusa la possibilità di una piena esistenza.
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