testo e regia Emma Dante
con Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Carmine Maringola, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabona
costumi Emma Dante; sculture Cesare Inzerillo; luci Cristian Zucaro; assistente ai costumi Italia Carroccio; assistente di produzione Daniela Gusmano; coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone
RomaSud Costa Occidentale in coproduzione con Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon Liberté ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur, Teatro Biondo di Palermo, La Criée Théâtre National de Marseille, Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria con il sostegno dei Fondi di integrazione per i giovani artisti teatrali della DRAC PACA e della Regione Sud
Un solitario uomo trascorre insonne la notte del 2 novembre parlando con quel panetto che non ne vuol sapere di lievitare per dar vita al pupo di zucchero, l’omaggio ai defunti che la tradizione siciliana vuole si tributi sotto forma di dolce decorato ed ispirato ai caratteri del teatro dei pupi: per il Vecchio è un colloquio muto, una preghiera che sa di invocazione, al tempo stesso pretesto per la rievocazione del passato e della sua famiglia i cui appartenenti, uno dopo l’altro, ritornano in vita con il loro carico di umanità e di vitalità.
In scena prende forma una colorata e danzata galleria umana, dalle tre sorelle Rosa, Primula e Viola al di lei spasimante Pedro, dal padre marinaio all’improvviso scomparso alla madre che lo attende per cinquant’anni sul molo, passando per lo zio violento e la zia pronta a mostrargli di continuo il seno per calmarne i bollenti spiriti: liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile il racconto è una processione laica alimentata da ricordi e suggestioni in cui si mescolano elementi propri di una secolare cultura a sentimenti propri di un’autrice da sempre attenta all’importante funzione del ricordo dei morti intesi come presenze "vive" necessarie per combattere solitudine e disperazione. Non è forse un caso che saranno proprio loro, le anime dei defunti addobbate con lustrini e pailettes, a dar forma e colore al pupo finalmente lievitato, a santificare la festa ed i suoi simboli riempiendo, fosse anche per una notte sola, la vita del Vecchio altrimenti destinata a macerarsi nella solitudine.
E se i morti in quanto tali possono rivivere solo nelle proiezioni dei ricordi, Pupo di zucchero non può sottrarsi alla circolarità della vita/non vita, e come con un trillo di campanelli tutto era iniziato con analogo suono tutto finisce, ideale gong a scandire i round dell’infinita sfida tra vita e morte: se le anime erano entrate in scena portando la loro vitalità, ora le stesse, prima di congedarsi per sempre, vi ritornano con la propria effige mummificata nelle impressionanti sculture di Cesare Inzerillo, un morto che porta l’immagine della morte per la definizione di uno spettrale quadro di insieme dove ogni cosa torna al proprio posto.
Sessanta minuti scarsi di un teatro estremamente poetico, semplice ai limiti del minimalismo nella sua composizione con una sedia, una coperta colorata, qualche banale oggetto di scena a far da contraltare ad un linguaggio verbale articolato, ma pur sempre comprensibile, nella perfetta interpretazione dell’applaudito cast guidato dal Vecchio di Carmine Maringola, poetico aedo dalla grande umanità combattuto tra un solitario tramonto dalla vita e la persistente forza dei ricordi.
Il pupo di zucchero.jpg