Cuntisti si nasce, non è una professione che si può scegliere da adulti, bisogna crescerci dentro. Il Maestro Mimmo Cuticchio è l’erede di una famiglia di teatranti girovaghi, “camminanti”, come si definivano in Sicilia, che negli anni ’50 si spostava per la regione con il teatro mobile dei pupi, vivendo di baratto (cibo in cambio di ingressi gratuiti agli spettacoli). Oggi porta i suoi spettacoli in tutto il mondo, in Italia Radio3 lo ospita regolarmente, trasmettendo i cunti in diretta o registrati. Il suo teatro di improvvisazione funziona bene anche via radio, l’immaginario vive a distanza attraverso l’incanto della sola voce narrante. Perché tutto sommato, al di là di mimica e gestualità, quello che funziona di più è il modo di raccontare: la drammaticità, l’ironia, il gioco, l’epica di questo mondo antico.
Il cunto, così come l’opera dei pupi, è infatti una tradizione antica unica al mondo, protetta dall’Unesco e seguita in tutti i continenti: Mimmo Cuticchio si divide fra il suo Teatro all’Olivella, nel centro storico di Palermo, e le tournée in Europa, America, Asia e Nordafrica, con grande soddisfazione. Ma a conti fatti il successo mondiale lo lascia con l’amaro in bocca: “il mondo mi ha accolto, ma i politici della Sicilia ignorano il mio lavoro”.
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Nell’introduzione dello spettacolo Il cunto spiega la differenza fra cantastorie e cuntista. Qual è invece la differenza fra queste e la figura del puparo?
Il puparo è il costruttore di pupi, l’oprante – cioè colui che opera, che dà le voci, dirige lo spettacolo… Quindi io sarei un oprante puparo perché costruisco i pupi e li recito. In questa tradizione ad esprimersi sono i pupi siciliani, che si possono chiamare anche marionette. Ci sono regole di mestiere, si lavora anche su improvvisazione, ma di base esistono i canovacci, cioè degli appunti da cui si passa alla messa in scena.
Il cuntista è un narratore: non ha pupi, né arnesi, né costumi, né strumenti musicali se non quello del proprio corpo, come teatro mobile, e della sua voce, come modo espressivo per comunicare. Utilizza una spada di legno, unico elemento che ha in mano. E’ simbolica, perché rappresenta uno scettro che si tramanda, ma è anche un elemento utile per la gestualità di duelli e battaglie e anche di tante altre attività: diventa una bacchetta per indicare, quindi può servire anche per sfogare i ritmi, la potenzialità della parola, la scansione del tempo. A scandirlo è la spada che taglia l’aria, che insieme al battito del piede dà il ritmo.
Recita a memoria o a braccio?
La memoria è la conoscenza delle storie, quelle tradizionali che ho imparato da bambino o i testi nuovi, che mi hanno raccontato oppure ho letto. Ovviamente narrando i fatti esce l’uomo, l’artista, il teatrante, quindi la storia non può essere letta a memoria; si può raccontare, ma la suonata deve essere estemporanea. Cosa ci posso mettere dentro non lo so a priori, ma si sviluppa man mano rispetto al pubblico che ho davanti e alle sue reazioni.
Quale dei due ruoli (cuntista o puparo) le è più congeniale e perché?
Io sono come impastato, come quando si fa il pane: sono innamorato di tutti e due i lavori, perché sono due modi diversi di raccontare. Uno si aiuta e si esprime con le marionette, l’altro invece soltanto con l’immaginario e con i ritmi di tempi e voce. Tutti e due fanno parte di me, sono due binari e il mio carrello cammina su entrambi. Forse l’amore unico che li accomuna è quello della comunicazione: raccontare.
Ha fatto spettacoli in molti Paesi diversi e lontani: la reazione del pubblico è disparata, immagino…?
Certamente. Quando vado in giro all’estero il cunto lo faccio all’interno di spettacoli più articolati, dove magari ci sono anche i pupi. Lavoro a scena aperta, tante volte ci sono anche i cantanti lirici, faccio le riduzioni delle opere liriche. Il cunto da solo l’ho portato in Germania, Francia, Spagna, Giappone, di solito quelli che studiano l’italiano e amano l’Italia vengono, spesso c’è qualcuno che capisce la lingua. Chi mi chiama sa di cosa si tratta, mi presenta in programmi che in qualche modo hanno a che fare con la tradizione, il suono antico della parola, il dialetto come lingua, la recita come fatto anche musicale. Ragion per cui ho sempre davanti un pubblico preparato. Poi spesso racconto dei pezzi famosi di storia della Sicilia, magari romanzati, ma non favole.
Che lei sappia, sono tradizioni solo italiane o esistono esempi simili in altri Paesi Europei o extraeropei?
Ce ne sono state e probabilmente ce ne sono ancora. Per esempio ho un amico iracheno che vive in Sicilia, il quale in qualche modo racconta a partire dalle tradizioni del suo paese, di Baghdad, dove lui è nato e cresciuto; suona i tamburi e fa dei canti, lui conosce dei narratori tradizionali e ha ritmi e suoni particolari, della sua terra.
Ho anche incontrato un altro narratore iraniano, che come me racconta le storie dei cavalieri. Io racconto quelle dei paladini, e lui quelle dei re, storie musulmane, un’epopea cavalleresca. Ritmi vocali e gestualità sono simili alle mie e anche lui lavora sull’improvvisazione. Lui è l’unico vero narratore, perché il primo ha studiato, mentre questo è semianalfabeta, quindi è più vicino alla tradizione dei cuntisti siciliani dell’800-primi del ‘900.
In Italia oggi esistono altre botteghe che mantengono queste tradizioni?
I teatri di pupi sono solo in Sicilia, in Italia esistono tante tradizioni di marionette nel nord: i Colla, i Lupi, i Podrecca fino a Roma, agli Accettella. Da Bergamo a Napoli c’è la tradizione dei burattini. Come narrazione tradizionale, a parte i testi che sono stati raccolti dai reali di Francia nel ‘300, ci sono i poeti letterari (trascritti). In Sicilia invece si è mantenuta questa antica tradizione orale dei cuntisti. Qui come vero contastorie c’era solo il mio maestro, che è vissuto fino al ’73, e ora ci sono io. Poi ci sono tanti giovani attori appassionati, alcuni hanno inserito nel loro spettacolo un frammento di cunto, ma dei veri cuntisti non esistono. E’ possibile che in futuro uno dei miei parenti, che mi segue fin da ragazzo, un giorno prenderà la spada in mano e sarà un vero cuntista. Qualcuno che ci è cresciuto dentro, non credo agli attori che vogliono fare i cuntisti. Baliani, Paolini e altri (qualcuno è stato anche mio allievo), sono bravi narratori, ma non sono né cuntisti né contastorie. Diversi hanno provato a farlo, mettendosi in mano una spada, ascoltando una registrazione, ma si vede che non erano cavalli di razza, perché dopo qualche mese sono scomparsi.
Quante sono le storie, e quindi quanti spettacoli diversi potrebbe fare?
Non so. Ho fatto dei cicli a Palermo, vicino al mio teatrino c’è un cortiletto dove facevo dei cunti all’aperto, sono arrivato a 30-40 puntate, ma non sono mai riuscito a farne di più, per via della tournée. E anche perché non c’era un vero e proprio pagamento…. Io dicevo “si, lo cunto è bello, ma c’a ci mettemo n’a pignata?” insomma, di offerte non si può campare più. Allora sono stato costretto a farlo dentro: il teatrino ha una sala di 90 posti e dentro il laboratorio ce ne metto 60 seduti. Faccio piccoli cicli di 6-8-10 puntate. Se facessi i cunti ogni giorno, penso che almeno duecento racconti senza leggere un libro li potrei mettere in scena. Da bambino sono cresciuto con queste storie, di ogni paladino conosco vita, morte e miracoli. Quando comincio a raccontare è come se parlassi della mia famiglia, posso raccontare i fatti personali nei dettagli.
Le storie dei pupi invece sono più schematizzate?
Lì abbiamo i canovacci. Dal 2003 è mio figlio ad occuparsi del teatro tradizionale. Abbiamo fatto le serate speciali, cioè storie che iniziano e finiscono in una sola serata, testi shakespeariani, testi sacri… ho dato la possibilità ai palermitani giovani di avere una memoria di questi spettacoli antichi e poi ho dato a mio figlio, ai miei nipoti e ai miei allievi una conoscenza più ampia del repertorio con questo tipo di teatro.
C’è già qualcuno che recita con lei? E’ una tradizione destinata a rimanere viva?
Mi figlio e dei giovani attori che erano portati hanno recitato con me. Nello spettacolo tradizionale dei pupi l’oprante si fa tutte le voci, ma io ho portato i pupi nella grande scena, sono uscito dal piccolo boccascena e ora presento lo spettacolo senza quinte né altro, così ho potuto inserire degli attori. I pupi vengono mossi a scena aperta, a volte si sdoppiano anche i personaggi, l’attore diventa l’animo del pupo, il pupo fa delle azioni, ma quando ci sono momenti più interiori, non ci sono duelli o cavalcate, è l’attore che recita la parte. Per esempio ne L’urlo del mostro, il viaggio di Ulisse che dal ritorno di Troia per Itaca supera mille avventure, io mi sdoppiavo: le azioni le facevo col pupo e invece i momenti più interiori li recitavo in prima persona e i miei due giovani attori facevano Telemaco in due versioni: il Telemaco fermo con la madre in attesa del padre e il Telemaco che andava in viaggio a cercare il padre. Così ho dato la possibilità a questi due giovani di recitare con me. E’ difficile, perché io nelle mie parti posso improvvisare, ma le loro gliele devo scrivere, perché i virtuosismi possono funzionare qualche volta, ma si rischia… ad esempio io per ogni pezzo di armatura conosco tre-quattro parole (cavallo, destriero…. eccetera). Quando ho cercato di improvvisare con i giovani, loro sono arrivati persino a chiamare signorina una principessa, una donzella!
Come viene considerata nell’ambito della società la vostra attività?
I miei genitori erano girovaghi. Da noi si diceva “camminanti”, si fermavano 3-4 mesi in un paese, poi si spostavano in un altro… infatti io le scuole dell’obbligo le ho fatte a pezzi, invece di finire la quinta elementare a 10 anni l’ho finita a 12, perché in alcuni paesi negli anni ’50-’60 non c’era la scuola, mi dovevano accompagnare con il carretto. Noi dormivamo dentro il teatrino, d’inverno si moriva di freddo. Ci coricavamo sopra le panche, fra le quinte sul palcoscenico, i miei genitori sulle assi. Ogni giorno dopo che usciva il pubblico si puliva la sala, si apriva per fare uscire il fumo – allora si fumava pipa, si mangiavano semi di zucca e gassose (la vendita cercava di aiutare gli introiti), molti pagavano ancora in natura: formaggio, olive. Nei paesi non c’erano soldi, ma tutti avevano vino, olive, frutta, facevano il pane… così valutavano: un pezzo di formaggio per sette giorni di ingresso libero, un paio di scarpe per due mesi di spettacoli, mio padre andava dal barbiere ogni due giorni e quello entrava gratis… nessuno pagava, ma per noi andava bene. Mia madre diceva che l’importante era mangiare, era una vita da poveri teatranti….
Grazie alla mala politica che abbiamo avuto a Palermo, quando i pupari avevano bisogno di aiuto, non venivano considerati nemmeno teatranti, ma come saltimbanchi, alla stregua di quelli che vendevano palloncini… Ho aperto il teatrino che avevo 25 anni, e il sindaco di mi disse che queste cose erano finite, morte…. Era il 1973, ed è andata così fino al 2001 quando si è attivato l’Unesco, che ha riconosciuto che il teatro dei pupi è il solo teatro epico-cavalleresco che esiste in tutta Europa e in tutto l’occidente. Cioè un teatro unico al mondo, come l’Opera di Pechino, il Bunraku giapponese, le marionette del Vietnam, le marottes francesi, le guarattelle di napoli…. L’Unesco ha esortato a sostenerne l’attività per tramandarne i sapere e le conoscenze, non solo la tradizione orale ma anche la scrittura dei canovacci, i codici, la costruzione dei pupi, lo sbalzo del metallo, l’intaglio, la pittura…. Noi ancora dipingiamo con la colla di pesce, lavoriamo i metalli con martellini e punzoni, cose che non si usano più. Per esempio a Marrakech oggi viene tutelata la piazza (Djem el Fnaa, ndr), dove i girovaghi, i narratori che vengono dal deserto trovano uno spazio adeguato… l’opera dei pupi dovrebbe essere parimenti tutelata: non aprendo i musei, ma sostenendo l’attività delle ultime famiglie.
Oggi ricevete sovvenzioni?
No, abbiamo solo un piccolo aiuto per pagare i contributi previdenziali e assistenziali, solo questo da parte dello Stato. Mentre la Regione, solo l’anno scorso ha fatto una legge per darci due soldi.
Nello spettacolo fa riferimento ad un “pubblico tradizionale”: è numeroso? Da chi è composto? Come interagisce?
Fino agli anni ’60-‘70 c’era un pubblico tradizionale che seguiva, conosceva bene tutti i fatti e i personaggi. Reagivano, ad esempio con il cunto su Gano di Magonza, quando va da Orlando e gli racconta menzogne, qui ridiamo, cerchiamo di sdrammatizzare, ma quando si faceva col pubblico tradizionale il narratore evitava di dire il nome del personaggio, se voleva andare avanti, altrimenti quelli si incavolavano perché sapevano quanto era carogna: “Pezzu di curnutu! Talia chi c’ha a cuntari a Orlando! Chiddu c’ammuccò! Ci cridiu!”, reagiva come se fossero vere queste storie. Il pubblico che mi segue da sempre, e ora porta figli e nipoti, ha imparato a conoscere i personaggi, a vedere i pupi da me, quindi è abituato alle mie battute, sorridiamo, giochiamo insieme. Ma al tempo del mio maestro quando usciva l’Angelo c’era silenzio e tutti di toglievano la coppola e si facevano il segno della croce come se fosse vero.
Secondo lei perché ci sono persone che ancora seguono e amano sentire queste storie? Qual è il legame con l’oggi?
Io penso che l’antico abbia sempre un fascino particolare. Ho girato il mondo e mi sono reso conto che il pupo è un teatro antico, il cunto è un modo antico di raccontare le storie. Chi ha studiato ci vede omero, i poeti, gli aedi, la metrica… a confronto del nuovo che andiamo conquistando ogni giorno e che è molto effimero, l’antico appassiona di più. Affascina proprio perché non lo fa più nessuno, perché abbiamo perso questo modo di raccontare e comunicare. Ormai il teatro è fatto di tir, grandi scenografie, costumi, maschere, profumi, ciprie…. Poi arriva uno che non ha niente, in una scenografia pulita e si mette a raccontare per un’ora e mezzo, come se fossero vere, queste storie di mille anni fa, portando a fantasticare, sognare, ridere, emozionarci… penso che questa sia la forza di questo mio antico mestiere.
Il valore della tradizione?
L’antico non è solo tradizione: se restaurato e conservato ci mostra un passato che non è fatto solo di cose vecchie, ma che racconta storie. Anche muri e pietre parlano e raccontano. La tradizione diventa le tradizioni, passa da un’epoca ad un’altra, così il narratore parte da Omero e arriva a noi dopo diecimila anni e il fascino che aveva lui è lo stesso che hanno i cuntisti oggi. Non abbiamo registrazioni, non c’è continuità, ma si immagina che anche lui utilizzasse una metrica. Nessuno sa esattamente come raccontasse, forse inseriva varianti, sia per raccogliere l’attenzione del pubblico, sia per non farsi rubare il mestiere… come facciamo noi oggi.
Prossime trasferte importanti?
La settimana prossima torno a Palermo, dove girerò tante piazze durante la Settimana Santa, con la Passione di Cristo, per la quale abbiamo preparato dei pupi nuovi e musiche dal vivo composte da mio figlio Giacomo. Poi stiamo ultimando un doppio progetto con la Germania (Gerusalemme liberata e Orlando furioso) e uno con la Francia (Caligola delirante, un’operina italiana del ‘700 mai rappresentata: pupi, cunto e canto lirico), che porteremo la prossima estate. A ottobre saremo in Brasile, per una piccola tournée di un paio di settimane, e poi a dicembre vediamo - l’anno scorso ci siamo voluti dedicare al nostro festival di Palermo, una rassegna che si chiama La macchina dei sogni che facciamo da 27 anni. Io sono irrequieto e non mi piace ripetere le stesse cose, voglio fare sempre esperienze nuove. Da un lato seguo i ragazzi che lavorano nel teatrino, ma dall’altra cerco di dare continuità alle mie utopie. Sognavo di girare fuori dalla Sicilia e ho portato i pupi un po’ dappertutto: America, Africa, Marocco, Egitto, Portogallo, Polonia, Grecia, Europa, Russia, Indonesia, Vietnam...
Un’ultima curiosità: quanti pupi avete?
Mah, in realtà non li abbiamo contati mai, anche se quelli che ha lasciato mio padre sono stati tutti fotografati… 400 Paladini, più i pupi nuovi, un migliaio di pupi fra saraceni, cristiani, paggi, animali… mio padre ne avrà lasciati due-trecento, alcuni sono della seconda metà dell’800, altri di inizio ‘900 – oltre ai fondali antichi dell’ottocento - poi i miei fratelli ne hanno altri… forse in tutto duemila. Di giorno sono esposti nei laboratori, visitabili tutti i giorni dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00, in via Bari all’Olivella (al centro di Palermo, ndr). Ai visitatori vengono mostrati, spiegando le differenze fra i pupi antichi e ei nuovi… insomma, anche se siamo a livello familiare il nostro tesoro lo mettiamo in mostra. Forse meriteremmo un po’ più di attenzione. L’unico teatro antico di Palermo è il nostro, mio figlio è costretto fare due spettacoli quando vengono le scuole, mentre lo spettacolo dei pupi, con una sala adatta, trecento posti, sarebbe meraviglioso: è un peccato che non si possa avere! Provincia e Comune sono totalmente assenti. Il mondo ci sostiene, ma il nostro sindaco in 8-10 anni che è in carica non è mai venuto da noi. Per fortuna il pubblico apprezza la nostra arte, uno spettatore mi ha detto “vedevo un uomo con la barba bianca, ma vedevo anche un bambino che raccontava e siamo diventati tutti bambini a sentirlo raccontare”.
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