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Molly Sweeney, a teatro la differenza tra vedere e guardare.
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Carignano di Torino mercoledì 2 settembre 2020
di Brian Friel 

con Orietta Notari, Michele Di Mauro, Andrea Di Casa 

regia Valerio Binasco; scene e luci Jacopo Valsania; costumi Sandra Cardini.

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Se a teatro bastasse un cast di livello per il successo di uno spettacolo la scena italiana avrebbe, forse, risolto gran parte dei suoi problemi; ma tant'è che gli attori recitano un testo, e se questo è un'ininterrotta narrazione si corre il rischio di veder in parte ridimensionato il pur pregevole gesto interpretativo che, nel nostro caso, pensiamo esca più rafforzato. In quest’ottica lascia qualche rimpianto Molly Sweeney, dramma monologante di Brian Friel che Valerio Binasco dirige affidando l’interpretazione agli ottimi Orietta Notari, Andrea Di Casa e Michele Di Mauro.

Teatro e scienza, o meglio scienza e teatro, sono le fondamenta su cui si edificano i 90 minuti filati del caso clinico di una donna quarantenne, Molly Sweeney, ipovedente dalla nascita che l’amato marito Frank convince a far operare dal dottor Rice, oftalmologo dedito tanto a retine e cristallini quanto alla bottiglia: rinata a nuova vita, la donna scoprirà presto come il mondo che adesso può vedere sia in realtà assai più pericoloso e sgradevole di quanto da lei immaginato, e soprattutto fino a quel momento "controllato" con i suoi strumenti tattili. Ad una Molly sempre più disperata e depressa non resterà che rifugiarsi nella cosiddetta "visione cieca", progressiva rinuncia alla vita che porta il malato a non accettare l’oggetto della sua visione, di cui non acquisirà mai piena coscienza, pena il progressivo autoisolamento con inevitabile approdo in ospedale psichiatrico.

Questo il dato scientifico che il drammaturgo irlandese ricava dal saggio Vedere e non vedere del neurologo Oliver Sacks, adattandolo per la scena in una struttura monologante dove i tre personaggi, ciascuno depositario di un intenso vissuto personale, si rivolgono direttamente al pubblico, senza mai arrivare ad interagire tra di loro, riferendo di angosce e paure, di speranze e sogni: racconti aperti, ora intime confessioni, ora sofferti sfoghi, le parole di Molly, Frank e Rice invadono la platea in una staffetta di immediato impatto la cui fruizione, alla distanza, risulta un po’ monocorde nella sua struttura totalmente narrativa. E se il vizio di fabbrica sta a monte, quel che ritroviamo a valle è un’ottima prova d’attore a partire dalla Molly di Orietta Notari, umanissimo ritratto di coraggio, fragilità ed alla fine disperazione, per arrivare al Frank di Andrea Di Casa, marito innamorato ma anche imprenditore senz'arte né parte che sceglierà la via dell’Africa una volta compreso l’inevitabile declino della moglie: da ultimo il dottor Rice di Michele Di Mauro, medico combattuto tra i successi di una carriera non priva di ostacoli e gli insuccessi di un matrimonio fallito.
Al pubblico non resta che interrogarsi sulla dicotomia tra vedere e guardare, tra l'atto della visione e quello della comprensione, edipico bivio di fronte al quale la pur coraggiosa Molly entra in profonda crisi, lasciando in eredità nessuna certezza, semmai la consapevolezza di come nella vita i "ritorni alla luce" abbiano spesso un peso difficile da sopportare.
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